La vendemmia com’era un tempo, di Rino Ermini (n°216)
Nel nostro podere, meno d’una decina di ettari fra campi e boschi, la vendemmia durava un paio di giornate. Faticose per gli adulti. Per i ragazzi erano giornate struggenti, complice forse l’aria di quella stagione (“Non so se tutti hanno capito ottobre/ la tua grande bellezza/ nei tini grassi come pance piene/ prepari mosto e ebbrezza/ prepari mosto e ebbrezza”).
La vendemmia si faceva come la facevano tutti. Si staccavano i grappoli con un paio di forbici da potatore. I bambini, che provavano a dare una mano, usavano le forbici da sarta delle madri, in genere quelle che non andavano più bene per difetto di taglio. I grappoli si mettevano nelle cistelle (con la “i”; erano dei recipienti, insomma dei cestelli, però femminili, fatte con strisce di legno di castagno intrecciate e ricavate da tronchi giovani con un procedimento che se ci sarà occasione vedremo un’altra volta) o nei cistelli, stessi recipienti ma più piccoli e maschili. Quando il cistello, o la cistella, erano pieni si portavano in fondo ai filari dove c’era il carro fermo ad aspettare, i buoi aggiogati. Sul carro stavano otto bigoni (o bigonci), quattro per lato, recipienti in legno di forma tronco-conica rovesciata, un po’ più stretti sul fondo e leggermente più larghi e aperti in alto, dimensioni 30 cm alla base, 40 sopra e 100 di altezza. L’uva dai cestelli la si svuotava nei bigoni e gli si dava una prima ammostata con l’ammostatoio, cioè un palo lungo un metro e mezzo, diametro 15 cm e arrotondato e più grosso verso il basso.
Ammostare voleva dire schiacciare i grappoli: schiacciarli poco perché un eccesso di mosto nei bigoni, col traballare del carro durante il trasporto, poteva dar luogo a sversamenti. Non ho mai sentito cantare durante la vendemmia, anche se nel sussidiario che usavamo alle elementari era scritto che in quell’occasione i contadini cantavano sempre. Ma erano ancora sussidiari che non avevano sentito la ventata del ’68 e gli schemi cui si rifacevano erano in molti casi quelli del Ventennio. Certo nei filari si parlava, raramente si stava silenziosi, ma cantare non ho mai sentito. I bigoni, col carro, venivano portati a casa, alla cantina. Lì si tiravano giù, si dava loro un’ulteriore ammostatura, questa volta più decisa, e si toglieva qualche manciata di raspi che sennò, a lasciarli tutti dentro, il vino veniva troppo carico di tannino. Fatta questa operazione, si portavano a spalla fino al tino e in esso venivano svuotati. Per una vendemmia nostra normale, i viaggi dal campo alla cantina potevano essere in due giornate massimo una decina. Il tino, sia detto per inciso, era un grande recipiente fatto con doghe di castagno e cerchioni in ferro, alto sui due metri e cinquanta, due di diametro, aperto in alto.
A volte, prima della vendemmia vera e propria, si facevano le “scelte”, si passava cioè lungo i filari a raccogliere una certa quantità di uva, la migliore, da stendere poi nelle stuoie sotto la loggia per farla appassire. Quella nera serviva a fare un mosto che si lasciava fermentare a parte per poi “governare” il vino normale, cioè correggerlo al meglio riguardo a colore e gradazione. Quella bianca serviva, poco prima delle feste di natale, per fare il vinsanto, che non era dolce come molti credono perché oggi solo quello si trova in commercio, ma secco. Fra le “scelte” rientravano anche i “penzoli”, pezzi di tralcio con due grappoli attaccati, uva bianca o nera che fosse ma acini radi, sani e ben maturi, che si appendevano, sempre sotto la loggia, a fili tesi da un muro all’altro: uva che, una volta appassita, si mangiava durante l’inverno, un grappolo ogni tanto, magari con una fetta di pane a colazione. Qualcuno di noi pane e uva li portava anche a scuola per merenda, ma era difficile mangiarseli in pace, perché un chicco all’uno e un chicco all’altro dei compagni e delle compagne che non erano figli di contadini, e a te non rimanevano che il pane solo e il raspo pelato.
Due o tre giorni dopo la vendemmia il tino cominciava a “bollire”, cioè la poltiglia di liquido, bucce, acini e raspi iniziava a fermentare. Il tino allora andava “ammostato” ogni sera, prima di andare a cena. Ciò significava entrarci dentro con i piedi nudi, pantaloni arrotolati. Io c’entravo in mutande, non senza prima aver debitamente orinato perché mio padre mi diceva perentorio: “Falla prima, sennò ti scappa quando sei lì e guai a te se la fai dentro” (leggetevi “Sorgo rosso”, di Mo Yan). L’ammostatura si faceva rimanendo saldamente aggrappati al bordo del tino, testa rigorosamente fuori dal bordo onde evitare i vapori della fermentazione (altro avvertimento: “stai attento, perché se svieni e vai giù non ti ripesca vivo nemmeno Gesù Cristo”), girando intorno e pesticciando con i piedi in modo che la materia solida emersa con la fermentazione fosse ricacciata sotto a rimescolarsi con quella liquida. L’operazione durava una ventina di minuti. Quando uscivo dal tino andavo alla fontana nell’aia a lavarmi le gambe rosse e appiccicose di mosto.
Trascorrevano un paio di settimane prima che la fermentazione avesse termine. A quel punto si passava alla svinatura. Alla base del tino c’era un foro in cui si inseriva una grossa cannella di metallo, fatta in modo tale che dall’interno uscisse il liquido, che nel tino occupava la parte più bassa, e non la materia solida che galleggiava sopra. Al primo getto si riempivano i bicchieri e c’erano l’assaggio e i commenti dei presenti. Sotto la cannella si mettevano una alla volta le damigiane e si riempivano fino ad esaurimento del liquido. Quello che usciva in questo modo era il “vino chiaro”, il migliore, subito bevibile e che, nel corso della sua vita, aveva bisogno soltanto di uno o due travasi perché di “fondata” ne faceva molto poca.
Diverso era il “vino stretto”. Quando finiva di uscire il chiaro, uno di noi entrava dentro il tino a riempire recipienti, che da fuori gli erano passati, con la materia solida residua rimasta sul fondo (la vinaccia). Questa vinaccia si stringeva col torchio e ne usciva il “vino stretto”, un vino torbido di color violaceo, che a berlo così come usciva allappava la bocca e, dicevano i grandi, “faceva male”. Era un vino che prima di essere bevuto aveva bisogno di mesi di riposo e di un certo numero di travasi.
Alla vendemmia e alla svinatura veniva a darci una mano qualche contadino amico di famiglia. Io ricordo bene Olinto di Naso. Era un vecchio, analfabeta, bravo e meticoloso nel suo lavoro, capace di raccontare tante di quelle storie che, si diceva, di gente ne ubriacava più lui, con le parole, che il vino. Non è che noi lo chiamassimo, sapeva da sé quando c’era bisogno. Non veniva per soldi, ché di soldi i miei non potevano dargliene, veniva per amicizia, per un desinare e una cena, per qualche fiasco di vino, e soprattutto per compagnia e per parlare. Io ero contento quando c’erano Olinto e altri esterni, perché era un po’ come una festa. Le cose più belle della svinatura erano quando usciva il primo vino chiaro dal tino e la cena. Si finiva di lavorare a buio, al chiarore di una lampadina attaccata sopra la porta della cantina. Quando si andava a tavola, prima di salire in cucina ci sciacquavamo viso, mani e braccia alla fontana. Ultimo venivo io, che portavo in tavola due fiaschi di vino nuovo.