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Categoria: Letture
Creato Mercoledì, 01 Aprile 2020

bottiI partigiani e la fattoria, di Rino Ermini (n°232) 

La fattoria del Ragneto era circondata da un grande recinto in blocchi squadrati di pietra serena alto tre metri sulla cui sommità erano murati cocci di bottiglia. Questa la prima caratteristica che si percepiva arrivandoci. C’erano due ingressi: uno per transitare a piedi e un passo carraio che stavano ambedue sul lato lungo la via comunale; un altro passaggio, per carri e persone, era dalla parte opposta ed immetteva nei campi. Dentro il recinto ci stavano la casa padronale e un parco signorile: sempre chiusi e in ordine in attesa del padrone, che viveva in città e lì ci passava sì e no una settimana due volte all’anno.

C’era poi la casa del fattore, che vi abitava con la famiglia. Era il vero padrone perché sempre presente. Ed era lui che doveva controllare i contadini, badare ai raccolti, fare le divisioni dei prodotti e assicurare che tutto funzionasse secondo gli interessi del proprietario, e suoi. Il fattore era infatti colui che a suo piacimento, ma se era furbo senza esagerare, oltre a ricevere un compenso ufficiale parte in denaro e parte in natura, aumentava quello in natura sottraendo a proprio beneficio una quota dei prodotti. Lo facevano tutti i fattori, e i padroni lo sapevano; ma lasciavano correre perché era il fattore che garantiva che i contadini tenessero la schiena curva sul lavoro e facessero fruttare la terra fino all’ultima goccia di sudore.

All’interno del recinto c’erano anche le case di due famiglie contadine addette ad altrettanti poderi e ai lavori necessari in fattoria, compreso per le donne il servizio nella casa padronale. Queste famiglie dovevano essere le più fedeli, sempre disponibili, adulti e ragazzi, maschi e femmine. La fattoria di poderi ne aveva altri otto sparsi nelle campagne intorno, per un totale di circa duecento ettari fra uliveti, vigne, seminativi e boschi, e un numero di persone addette intorno alle settanta unità.

Durante la Resistenza, che in queste zone durò per i dieci mesi che vanno dal settembre 1943 al luglio 1944, la fattoria del Ragneto fu dai partigiani visitata tre volte. Una agli inizi di novembre del ’43 da una pattuglia di sette combattenti che entrarono tranquillamente dai campi poco dopo cena. Uno rimase nell’aia per un minimo di guardia, due si diressero alla casa del fattore, e due in ciascuna della case contadine. Si svolse tutto velocemente e senza intoppi. I quattro o cinque fascisti del paese che poi si sarebbero “rivestiti” e avrebbero aderito alla repubblica di Salò, in quel momento erano ancora ben nascosti; i carabinieri erano di stanza in un paese a dieci chilometri, ma non si facevano vedere nemmeno loro; i tedeschi in quelle settimane transitavano sulla statale di fondovalle diretti al Sud e per ora avevano altro per la testa. Lo scopo dell’irruzione era sequestrare armi e soldi. In casa del fattore, che era fascista convinto, trovarono due pistole, un fucile da caccia, e un moschetto modello 91 con relative munizioni. Più una cospicua somma di denaro. Lasciarono regolare ricevuta per ogni cosa. Nelle case dei contadini accettarono un bicchiere di vino, ci trovarono e portarono via tre fucili da caccia e nemmeno cercarono denaro. Il bottino era stato relativo, ma non si aspettavano di più; ciò che interessavano erano le armi da guerra, mentre i fucili da caccia vennero prelevati più che altro per scrupolo.

La seconda visita la fecero poco prima delle feste di Natale. In fattoria durante la prima metà di dicembre si ammazzavano non meno di quattro maiali: uno da dividere in due fra le famiglie contadine, uno per il fattore e due da mandare in città al padrone. I partigiani si presentarono la sera del 23 dicembre entrando questa volta dalla porta carraia con tre muli al seguito. Non si sa come fecero ad aprirla né chi avesse loro prestato gli animali da soma. Andarono dal fattore, si fecero aprire la casa del padrone e portarono via tutti gli insaccati a lui destinati. Al fattore gliene portarono via la metà (“te  ne  rimane  sempre quanto ne hanno ciascuna delle due famiglie contadine”, gli dissero uscendo). Di nuovo lasciarono regolare ricevuta. Ai contadini non portarono via nulla. Bevvero il solito bicchiere di vino e salutarono. Sulla via del ritorno verso il distaccamento nacque una discussione a dir poco vivace scatenata da un partigiano, venti anni di età, nome di battaglia Galera, che non era d’accordo a lasciar ricevute. “Noi dobbiamo espropriare, non prendere in prestito. Tanto più che quando poi questi si presenteranno a riscuotere verranno rimborsati con i soldi pubblici, cioè di tutti. Che cazzo di guerra partigiana stiamo facendo allora?” “Zitto, Galera”, gli rispose quello che li comandava, uno che da civile faceva l’operaio alle miniere di lignite giù in valle, ventidue anni, nome di battaglia Randa, “nel nostro distaccamento si fa così. E se non ti va bene puoi andare con una banda dove ragionano diversamente: qualcuna in giro ce n’è”. Galera tirò una madonna di quelle sane e concluse dicendo che lui non sarebbe andato da nessuna parte, ma così non gli piaceva proprio.

La terza visita avvenne a fine marzo. In fattoria c’erano ancora quasi tutto il vino, l’olio e il grano di parte padronale frutto del raccolto dell’anno precedente. Questa volta agirono in almeno una ventina e si mossero all’imbrunire di un sabato freddo e piovoso, con l’intento di lavorare al buio. Un  nucleo neutralizzò i quattro fascisti presenti in paese che si erano un po’ ringalluzziti rispetto all’autunno precedente. Li radunarono in una cappella del cimitero, sotto tiro delle armi imbracciate da un paio di partigiani. Gli dissero pulito pulito che se avevano voglia di rimaner lì in eterno non avevano che da muovere un dito. Contemporaneamente altri, a coppie di due, si presentarono a cinque poderi per requisire in ognuno carro e buoi che poi avrebbero restituito. 

Fatto il lavoro di “introduzione”, si diressero in fattoria.

Il fattore lo bloccarono in casa anche lui sotto tiro di due armati. Gli altri lavorarono alacremente nelle cantine e nei granai a caricare olio, grano e vino, aiutati dai contadini residenti; “tanto”, disse un ragazzo, “il fattore non ci vede e nessuno è così bischero da raccontarglielo”. I viveri requisiti furono portati in canonica. Il prete aveva stipulato un accordo con i partigiani  perché, diceva, nel “suo popolo” c’erano non poche famiglie che erano alla fame: e i partigiani avevano provveduto. Una parte dei viveri furono lasciati lì perché fossero distribuiti a chi aveva bisogno, una parte proseguirono fino al distaccamento. Il solito Galera disse al prete di far le parti giuste anche con le famiglie comuniste,  altrimenti “si sarebbero rivisti”. “E a quelle fasciste che fanno la fame?” chiese il prete provocatorio. “Se hanno bambini anche a loro, se no digli che si rivolgano ai pezzi di merda dei loro capi. E poi senti un po’, rompicoglioni di un prete, fai un po’ come ti pare”.  Anche in tale occasione fu rilasciata regolare ricevuta, ma a mugugnare stavolta non fu solo Galera, perché, dicevano anche gli altri, “che discorso sarebbe che si va a prelevare roba al padrone per nutrire combattenti e popolazione e si dovrà poi a guerra conclusa passare a pagare. Ma siamo scemi o ci facciamo?”

Ezio di Beco era un vecchio di sessant’anni, uno dei contadini a cui i partigiani avevano “chiesto in prestito” il carro e i buoi. Durante la notte glieli riportarono con sopra mezzo sacco di grano dicendogli che glielo mandava il fattore per il disturbo. La mattina seguente Ezio andò alla messa ed Egisto di Botro, seduto accanto a lui, lo informò sottovoce che i partigiani nella notte avevano “visitato” la fattoria. Lui rispose con un ghigno e fece le viste di non crederci nemmeno.

 

 

           

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