Brunero Ciantini, di Rino Ermini (n°252)
ovvero: “Le trasformazioni di un razzista”
Questa storia, un po’ personale e molto semplice, riguarda Brunero Ciantini, un uomo d’una quarantina d’anni nato a Firenze; più precisamente riguarderebbe certe idee senza senso sulla nascita e il luogo d’origine che malauguratamente si trovano un po’ dovunque e sempre più spesso, non solo a Firenze. A vent’anni, quindi non molto tempo fa, Brunero faceva parte di un gruppo di suoi coetanei come ce ne sono tanti, e non perdeva occasione di far notare che lui era “cittadino” e “fiorentino puro”.
Non voleva essere confuso con i campagnoli, né con chi non risiedesse nella sua città da almeno sette o otto generazioni. Come facesse poi a calcolarle, queste generazioni, non si sa. Per il resto era un bravo ragazzo, ma stava un po’ sullo stomaco per quelle sue fissazioni. Anche quelli che frequentava erano nati in città, qualcuno da famiglia forse più antica della sua, altri invece da gente emigrata non molto tempo addietro dalle campagne intorno, dai monti, o dal Meridione. Altro che generazioni di cittadini! Sia come sia, nonostante questa loro provenienza “spuria”, li frequentava e non aveva quasi nulla da ridire.
Brunero Ciantini ai suoi amici dava l’impressione del mediatore di bestiame. Vai a sapere perché. E per fargli perdere le staffe gli dicevamo che, se i suoi antenati erano stati sensali nelle fiere, veniva anche lui dalla campagna. Rispondeva piuttosto piccato che essi capivano nulla di nulla, e che voleva sapere come facessero a dire che i suoi antenati erano sensali. E poi perché un sensale non poteva essere di città visto che fin dal più profondo medioevo quasi tutto il bestiame venduto nelle campagne affluiva in città a fare carne. “E voi credete”, diceva con aria da competente, “che le autorità della città affidassero a un qualunque bischero di campagnolo un commercio così importante? Voi capite quanto la vostra nonna al lavatoio”. Concludeva sprezzante con queste parole che, bisogna dirlo, erano poco rispettose delle donne, e in particolare delle nonne altrui. Chi lo frequentava poi si è sempre chiesto, peraltro senza trovare risposte, che cosa volesse dire questa storia della nonna al lavatoio. E perché proprio lei!
Si diplomò a diciannove anni da geometra, e siccome nel settore edile cittadino lavoravano un paio di tecnici amici di suo padre, trovò subito da impiegarsi in un cantiere che alla periferia della città tirava su palazzoni per una nuova tipologia di “immigrati”, cioè quel ceto medio basso impiegatizio che a causa di una politica forsennata e demenziale nell’amministrare la città e il suo turismo era costretto, in particolare per i prezzi delle case e degli affitti divenuti stratosferici, ad abbandonare il centro cittadino o le sue immediate vicinanze. Non parliamo poi di operai ed artigiani, scomparsi ormai da tempo anche dai quartieri popolari per andare nelle periferie anonime e brutte.
Brunero finì con lo sposare una ragazza di Figline Valdarno. Figline, come diceva padre Balducci (e chi era questo monaco nato ai piedi del Monte Amiata e, diceva lui, allievo di un anarchico, ve lo ricorderete tutti), nel medioevo era, per la città di Firenze e la sua gente, il meridione, non solo perché stava quaranta chilometri a sud, ma perché da lì venivano gli extracomunitari di allora. Dice Balducci che Dante quelli di Figline non li sopportava e li riteneva degli inferiori. Non sappiamo se sia vero che Balducci facesse tali affermazioni, ma non importa: di sicuro Dante era di origini nobili e uomo di potere, ed è verosimile che non amasse molto dei disperati o ardimentosi in cerca di fortuna che da campagne perse a quaranta chilometri, cioè ad almeno due giorni di cammino a piedi, approdassero in città con un fagotto di stracci, mentre lui mangiava tre volte al giorno, non svolgeva alcun lavoro e si dava bel tempo con la politica, la donna angelicata, il dolce stil novo e così via.
Tornando al discorso di prima, sia detto fra noi che la ragazza di Figline era nata lì, ma era figlia di meridionali venuti da Benevento: erano in famiglia un mucchio di fratelli e sorelle che divennero alcuni braccianti nelle fattorie della zona e altri operai pendolari fra Figline e Firenze. Vedi un po’ che storia è questa delle razze, dell’essere nati in un dato posto piuttosto che in un altro e simili questioni. E soprattutto come finì Brunero con tutte le sue idee da “fiorentino puro”: a Figline, nel “meridione” dei tempi di Dante e sposo di una meridionale dei tempi nostri, che si chiamava per di più Carmela Paternostro, un nome che avendocelo addosso non è nemmeno possibile nascondersi o tentare di passar per una del posto. Bisogna dire che questa donna era bella e simpatica, e non ci vuole molto a concludere che questo giocasse non poco sul fatto che Brunero dimenticasse che ella veniva dal sud, quello vero, e abitasse a Figline, nel sud del medioevo.
Dopo sposati misero su casa non proprio a Figline, ma nelle sue campagne, nella frazione di Gaville, un borgo di qualche decina di abitazioni disseminate fra vigne ed oliveti, che vantava una pieve romanica parecchio interessante. Brunero continuò a fare in zona il proprio mestiere di geometra costruendo modeste villette per quei lavoratori pendolari che a forza di sacrifici potevano farsi la casa di proprietà. Quelli che abitavano a Gaville, non sapendo di che vantarsi, si gloriavano della pieve. E non avevano tutti i torti: è bella ed ha annesso anche un museo contadino. Fu costruita nel XII secolo, forse da maestri Comacini o Alverniati, gente che girava di cantiere in cantiere, con una sacca di cuoio in cui non aveva nemmeno le brache di ricambio, ma solo scalpello, mazzuolo, compasso e squadra, a costruire edifici sacri; e rieccoci a gente che partiva e stava anni fuori dalla propria terra d’origine, e spesso non ci tornava più: finivano altrove la propria vita, magari sposandosi e mettendo su casa o forse, più frequentemente, rimanendo in eterno in cammino.
Dice sempre Brunero ai suoi vecchi amici di andare a trovarlo ed essi ci vanno spesso, visto anche che da lui e da sua moglie sono trattati assai bene a suon di gentilezza, arrosti, fagioli all’uccelletto e vino rosso. Quando ci vanno, lui non manca di far loro notare quanto sono poco furbi a vivere nelle vie rumorose e puzzolenti del loro quartiere in città. Perché la città, disse non molto tempo fa, sarà anche il centro del potere politico ed economico, ma proprio per questo, siccome è indubitabile che lontano dal potere si stia meglio, non capiva perché non si decidessero ad andare a vivere nella campagna dove viveva lui che era il punto più distante non solo dalla “nostra città”, ma anche da quella successiva. Insomma, aveva cambiato qualche idea, e ne aveva introdotta qualcuna di nuovo, come quella sul potere.
Chiacchierava e chiacchierava, ma continuava a dire “la nostra città”. I suoi amici l’avevano notato ma lasciavano perdere. Faceva il furbo. Ora magnificava la campagna perché aveva trovato una che ce l’aveva tirato. Oppure, chi lo sa, forse ci stava bene per davvero. Di sicuro, per quanto li riguardava, e come chissà quante volte si erano ripetuti, aveva una moglie così bella e simpatica, che campagna o non campagna, sud o non sud, loro per lei sarebbero andati anche all’inferno.
Ma questi in fondo erano discorsi fatti tanto per fare. La realtà vera, diceva qualcuno di loro, era che le cose a livello nazionale si erano rimescolate, e a livello globale si stavano rimescolando a un punto tale che nemmeno ai più bischeri e sprovveduti sarebbe stato più possibile continuare a incaponirsi su certe idee e coltivarle. E, diceva un altro, meglio lasciarsi andare ai cambiamenti e, se mai ci riuscisse, invece di rimanere ancorati a delle assurdità, vedere di governarli, non a favore dei cittadini contro i campagnoli, o dei locali contro chi vien da fuori, o degli italiani contro gli stranieri, ma a favore dei poveri e dei lavoratori, siano essi di città o di campagna, italiani o africani. A proposito, concludeva in genere un altro ancora, non c’era un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui si sentiva parlare di internazionalismo, di eguaglianza, di fratellanza e di giustizia?