La storia di Fofino conte degli Alamanni (o di Bettino, barone dei Ricasoli?), di Rino Ermini (n°260)
Questa storia la sentivo raccontare da ragazzo. La trascrissi che ero sui quattordici anni. Poi, a vent’anni, siccome mi venne lo sghiribizzo dall’oggi al domani di dare una svolta alla mia vita, decisi di bruciare tutto quello che avevo scritto fino ad allora. Feci un falò nel campo, ma bruciarono le carte e io rimasi com’ero, magari più bischero di prima, come disse la ragazza con cui stavo a quei tempi e che era presente al falò.
Quello che bruciai, oggi vorrei che fosse qui, per avere qualche cosa di concreto su cui intenerirmi, o su cui magari piangere o sorridere. Ma non c’è più nulla, se non dei frammenti e poco d’altro che mando a memoria. Uno di questi frammenti è la storia di Fofino, conte degli Alamanni, che vi racconterò, diciamo così, in tre versioni: due che erano nei miei antichi scritti affidati al fuoco, la terza, invece, che è cosa non mia e più tarda, più seria e rintracciabile negli archivi.
Prima la versione di Ulinto di Naso, un vecchio contadino conta storie, analfabeta e maestro della parola orale. Poi quella di mio nonno paterno, anche lui analfabeta, ma più che un conta storie era un conta balle, ed era maestro nel rigirartela come gli pareva. Infine quella che mi limiterò solo ad accennarvi, di un vero ricercatore in storia, patentato, ma di cui non ricordo né il nome né il titolo dell’opera.
Ulinto di Naso raccontava che il conte Fofino degli Alamanni, proprietario terriero, tiranno con i contadini dei quali insidiava anche le donne, e soprattutto uomo che si proclamava nemico dei preti e della chiesa, venne a un certo punto a morte, né più né meno, come diceva Ulinto, capitava e capiterà a tutti. C’erano due camposanti: uno nel capoluogo e uno nella frazione più grossa. Fofino fu sepolto in quello della frazione. Ma non passò molto tempo che l’ombra del conte nelle notti più buie cominciò a farsi vedere a passeggio sul muro di cinta del cimitero e a spaventare le persone che da lì passavano di ritorno dalle veglie. Alla fine, stufo della situazione e delle proteste della gente, il prete chiamò un frate cappuccino perché venisse a parlare con quell’ombra. Non si sa perché, dubitava Ulinto, non ci potesse parlare il prete; e concludeva perché i preti voglia di lavorare ne hanno sempre avuta poca.
Si attese la notte giusta. Il cappuccino venne e chiese a Fofino che volesse con tutto quel suo passeggiare avanti e indietro a spaventare i buoni cristiani. “I buoni cristiani un corno”, chiosò costui. “E poi non voglio stare qui dove sono ora perché sento il suono delle campane e la cosa mi dà fastidio, non la sopporto proprio”. “E dove vorresti andare, nato d’un cane”, rispose il frate. “Al Pozzo al Fico voglio andare, dove il suono delle campane non si sente”. Il Pozzo al Fico era, ed è, un’ampia pozza d’acqua che sta sotto una grossa cascata del torrente che scorre da queste parti, proprio in una forra talmente incassata che laggiù, anche per il rumore che fa l’acqua, il suono delle campane non si sente. Così la notte seguente furono chiamati dei contadini con tanto di carriola, zappe e pale. Sotto l’assistenza del prete e del cappuccino scavarono la tomba, tirarono fuori la cassa, la misero sulla carriola e cigolando cigolando, fra buio, tuoni e lampi che come è nella miglior tradizione di queste storie imperversavano sui fianchi dei monti, andarono fino al Pozzo al Fico. Lì aprirono la cassa ma dentro non c’era nessuno. “Per forza” disse Menco di Mustio, uno dei contadini, “quando si more si diventa spiriti e non si po’ esser visti”. E tutti tornarono a casa tranquilli, convinti che il conte Fofino “non avrebbe più rotto i coglioni”.
Ma così non fu, diceva Ulinto, perché proprio a lui capitò il seguente fatto. Una notte di buio pesto, in compagnia di suo fratello (stavano andando in montagna a cercare i funghi, e siccome a quell’epoca si andava a piedi, per essere sul posto all’alba si partiva in piena notte), mentre passavano su un ponticello che sta sul torrente poco più a monte del Pozzo al Fico, si sentì tirare e strattonare per il cestello che con una cinghia portava a tracolla. Ulinto, credendo d’essere rimasto impigliato in un pruno, cercò di liberarsene con una mano, ma pruni non ce n’erano. Sarà il conte Fofino che si diverte a far dispetti, disse il fratello, tira un paio di madonne così vedrai che ti lascia in pace visto che lui, oltre al suono delle campane, non vorrà sentire nemmeno il nome di dio. È inutile chiarire che a nessuno dei due, per fare il nome di dio, venne in mente di recitare una preghiera a voce alta, perché ambedue non credevano né a dio né ai preti. Fu così che Ulinto, smadonnando, si liberò del conte Fofino; ma la cosa più importante fu che poté certificarne la presenza per averlo incontrato di persona, anche se non l’aveva visto.
Mio nonno la raccontava in un altro modo. Fofino fu messo nella cappella di famiglia nel cimitero grande del capoluogo. Ma anche lì, proprio accanto al camposanto, c’era la chiesa, e si sentiva il suono delle campane. E anche lì si ripeté la storia. Ma i contadini non vennero con la carriola e le zappe. Vennero due membri della famiglia Alamanni con una carrozza trainata da quattro cavalli per portare il conte al Pozzo al Fico, non con una carriola, ma come a un conte si conveniva. Tant’è vero che in certe notti se uno percorreva la strada dal paese verso la montagna, quella che passa vicino al cimitero e anche dalle parti del Pozzo al Fico, poteva sentire dietro di sé il galoppo dei cavalli e il rumore della carrozza. Allora si faceva da parte, ma passava il rumore, e non si vedevano né la carrozza né i cavalli.
Mio nonno testimoniava che era vero. Lui abitava su in montagna e la sua dama, cioè la fidanzata, stava in un podere al piano. Com’era costume a quei tempi, lui andava a trovarla una volta alla settimana, il giovedì, dopo cena, a veglia, come si diceva allora, quando si stava intorno al camino con gli altri famigliari e si chiacchierava, gli uomini facevano cesti e le donne la calza, e i due fidanzati stavano ben distanti l’uno dall’altra. Verso mezzanotte, quando gli altri andavano a letto, lui salutava e si avviava verso casa sua; e giurava e spergiurava che una notte gli capitò proprio quel fatto: sentì il rumore della carrozza e dei cavalli, si fece da parte, ma non passò nessuno. Quando noi nipoti gli si domandava: “O nonno, ma non vi siete cacato addosso dalla paura”. “Macché, ’un mi s’è nemmeno accapponata la pelle”. E ti pareva.
Qualcuno con mentalità più moderna e che non aveva voglia di raccontar novelle, diceva che cavalli e carrozza erano veri: erano quelli che erano venuti una notte a prelevare la cassa del conte Fofino, semplicemente per portarlo a Firenze per la cremazione, perché era un massone. E il rumore che si sentiva di notte esisteva solo nella zucca di quelli che se non la raccontavano con spiriti, ombre e fantasmi non erano contenti.
E siamo alla terza. Mi capitò anni fa un libretto, una ricerca di storia su quel che si raccontava in Chianti a proposito del marchese Bettino Ricasoli. Uomo politico, proprietario terriero, massone, primo ministro, ecc. Lo sanno tutti chi era. Fu anche l’inventore del Chianti. Non che non si bevesse prima di lui il vino rosso, ma quello che oggi si conosce con quel nome, con quelle date proporzione e qualità di uve fu invenzione del Ricasoli e, bisogna dirlo, dei suoi contadini. Un’altra delle sue attività principali, oltre a fare il vino, fu quella di allargare i propri possessi a danno di piccoli proprietari, o anche grandi se ci riusciva, e soprattutto a danno della chiesa proprietaria a sua volta di molti poderi, confinassero o meno con i suoi possedimenti. Ricasoli diceva che la chiesa era adatta per i suoi contadini per le fole che loro raccontava; per lui invece serviva a levarle un podere qui e uno là, uno domani e uno domani l’altro, perché era giusto levare la proprietà a chi non sapeva farla fruttare in termini moderni. I preti è naturale che non l’amassero molto e che ne dicessero peste e corna. Quando morì accadde la solita storia: fu sepolto nella tomba di famiglia, che sta proprio nei sotterranei del castello di Brolio, dimora dei Ricasoli, ancora oggi visitabile (almeno credo), ma lì si sentiva il suono delle campane, ecc. ecc., che lui non lo voleva sentire perché “era dannato”. Era dannato lo dicevano i preti dal pulpito, i contadini dicevano che quand’era in vita faceva dannare loro. I soliti saputi chiarivano che era semplicemente un massone assai potente, ed erano gli unici ad azzeccarci.
Fu così che il corpo venne rimosso e portato nel Borro dell’Antrona, che esiste davvero ed è luogo infossato, boscoso e, dicono alcuni, molto tetro. Io invece lo trovo bellissimo, per la sua solitudine e perché in fondo ci scorre anche in tempi di siccità un rivolo d’acqua chiarissima che è una bellezza. Qualche anno fa, quando lessi questa storia del Ricasoli frutto di una ricerca seria e che era molto più ampia di come ve la stia raccontando io, mi capitò di visitare il castello di Brolio, la dimora ancor oggi, come ho detto, degli eredi di Bettino. Mi guidava un contadino non più giovane addetto alla fattoria, che mi fece visitare anche i sotterranei dov’erano le tombe di famiglia, ma quando gli chiesi della storia dell’Antrona rispose confuso. Rimase confuso e restio anche di fronte alle mie insistenze, tanto che si potrebbe pensare che era riluttante per paura del Ricasoli dannato, il quale avrebbe potuto vendicarsi prendendolo la notte per i piedi. Oppure, più verosimilmente, di quella storia non ne sapeva nulla perché non aveva letto la ricerca storica di cui parlavo, e nemmeno aveva avuto la fortuna di incontrare, come era capitato a me, gente del livello di Ulinto e di mio nonno.