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Categoria: Letture
Creato Sabato, 01 Giugno 2024

CastoriIl furto di un castoro, di Rino Ermini (n°274)

Ve la ricordate la storia di “Peter Russell, la bibliotecaria e Bakunin fuori posto”? (Pubblicata sul numero di marzo).

Ecco l’incipit di una poesia di Russell che si intitola “La Turbina”. La Turbina era l’antico “mulino” lungo il torrente Resco Simontano, per lungo tempo utilizzato da una grossa fattoria per produrre energia elettrica. Lo ricordate? E dove per un certo periodo provarono anche ad allevare i castori, non so se per semplice spirito creativo o per fare commercio di pellicce. 

In questo luogo, ormai abbandonato da tempo, Russell visse per molti anni, circondato in estate dal verde di folti boschi e, per tutto l’anno, dal rumore dell’acqua e dall’umidità che, come a Macondo, era così densa che le trote uscivano dal torrente e nuotavano nell’aria.

Dice la poesia di Russell:

Nella fredda notte umida cammino su per la collina

Oltre le gabbie di mattoni in rovina, sgretolate e sfaldate,

Sul pendio della collina sopra la gora

E gli spiriti dei castori si muovono nella luce lunare

Dall’erta collina con la maestosa quercia

Giù fino al bordo dell’acqua

Grigio-argento nel chiaro …...

C’è una storia sui castori che riguarda me e Maurizio al tempo delle scuole elementari quando la nostra Maestra, quella con la M maiuscola, ci mandò alla Turbina per vedere questi animali e fare una relazione alla classe. Credo che Russell avrebbe gradito di essere messo in un racconto insieme a noi due, forse i due elementi più incontrollati della scuola del nostro paese una sessantina d’anni fa e anche più. 

Non ricordo in che classe fossimo, ma la nostra Maestra un giorno fece uscire me e Maurizio un paio d’ore prima perché andassimo alla Turbina a vedere i castori (all’epoca non credo ci volessero le autorizzazioni dei genitori per uscire prima). La Maestra ci minacciò (e si raccomandò in ginocchio): “guai a voi se andate al Pignone (era una piccola diga sul torrente con relativo laghetto per la captazione dell’acqua necessaria alla Turbina) perché se andate lì e cadete dentro, affogate; mi raccomando, vi prego, Rino e Maurizio, promettetemi che non ci andate”. 

Noi andammo diritti al Pignone e i castori nemmeno li vedemmo. Ma cara Maestra, ma secondo te? Noi i castori li abbiamo visti chissà quante volte, e se ci mandi lassù si va al Pignone, mica a perdere tempo alla Turbina. E di relazioni sui castori, sai quante te ne facciamo? Anche dieci. Noi sappiamo già tutto. Figurati te che una volta abbiamo anche provato a rubarne uno, ma Gino di Bacciarino del Togna, il guardiano della Turbina, ci ha visti e non solo ci ha sparato dietro, ma ci ha anche detto che se ci si riprovava ci faceva il culo rosso dalle cinghiate, che era peggio di due fucilate. Sì, gli s’è detto, se ci prendi.

Ecco come andò. Dicevo che io e Maurizio non solo i castori s’erano già visti e non so quante volte prima che la Maestra ci mandasse lassù, ma addirittura s’era anche provato a rubarne uno. Maurizio invece oggi, a distanza di tanti anni, dice che noi il castoro si rubò davvero e si portò a casa. Insomma, si tratta di intendersi. Per me le cose andarono come ora dirò. Se Maurizio dice che il castoro si portò a casa, che ce ne facemmo? Io non ricordo nulla.

S’era andati proprio con l’intenzione di rubarne uno. Si portò una cistella, femminile di cistello e di questo più grande il doppio. Che i contadini facevano con strisce di legno di castagno e servivano per metterci l’uva alla vendemmia. S’era portato anche un pezzo di rete che doveva servirci per chiuderla la cistella, e impedire al castoro di scappare una volta che ce l’avessimo infilato dentro. Ci si era posto poi il problema di come tirar fuori il castoro dal suo stalletto. Lo “stalletto” era un ambiente ristretto in muratura, con un cancelletto e provvisto di due vani, uno scoperto, dove si buttava il mangiare per l’animale, e uno coperto dove l’animale si ricoverava la notte. Ci si teneva il maiale all’ingrasso, ma alla Turbina ce ne avevano quattro o cinque di questi stalletti (le gabbie di mattoni nella poesia di Russell)  dove allevavano una coppia di castori, maschio e femmina, in ciascuno di essi.

Noi si decise che si sarebbe presa una femmina pregna così ci avrebbe figliato. Ma avevamo dei dubbi perché alla Turbina, che noi si sapesse, nessun castoro aveva mai figliato. Insomma s’andò lassù con questa cistella e anche con una copertaccia per buttarla addosso al castoro da portar via e avvolgerlo stretto per evitare che ci mordesse le mani mentre lo tiravamo fuori dallo stalletto. S’era deciso che non sarebbe stato difficile perché il guardiano della Turbina (appunto Gino di Bacciarino del Togna) poteva essere nell’orto o nel campo e sua moglie (Rosa di Gostino di Bertaccio) era un po’ sorda e col rumore dell’acqua che veniva giù dalla cascata del Pignone non ci avrebbe sentito.

Invece ci sentirono perché noi si parlava a voce alta, non si stette zitti un momento durante l’operazione, come fossimo sicuri d’essere da soli e perché avevamo l’abitudine degli adulti diffusa dalle nostre parti: che quando facevano una cosa insieme parlavano in continuazione per commentare quel che stavano facendo, darsi consigli, fare battute, e così via.  E oltre a non stare zitti, ogni tanto ci mettevano anche qualche madonna, tanto per far sapere con chiarezza al padreterno chi era che comandava in quei frangenti.

E fu così che Gino,  che era in casa,  ci sentì subito, s’affacciò, ci vide e si mise a vociare. Ma noi il castoro s’era già afferrato, e chiusolo nella cistella con la rete, ci si dette a gambe. 

Nel frattempo Gino era rientrato in casa e di nuovo era uscito, questa volta col fucile in mano, tutto nel giro di pochi secondi, e ci lasciò andar dietro due fucilate. Ma non era mica scemo. Le fucilate le tirò verso l’alto, solo per spaventarci, colpendo fra le frasche di un pino. Una pigna, di quelle belle grosse e ancora chiusa e verde, quindi bella pesante, colpita in pieno, cadde giù e prese Maurizio in testa. Lui la raccattò e disse: la tengo per ricordo. Io ero invidioso, ma la pigna era cascata in testa a lui, e non potevo prenderla io: quel che è giusto è giusto.

Continuammo a scappare, ma non potevamo correre bene perché la cistella era grande, e pesante col castoro dentro; per di più quello sballottava in qua e in là e ci squilibrava. Intanto Gino continuava a vociare e a smadonnare: “Porca di quella donna, vi piglio stasera a casa vostra, belli caldi”. Quando ci si fu allontanati un po’, ci fermammo per prendere fiato e consultarci. “Che si fa? Se si va a casa col castoro, anche se si nasconde, stasera Gino viene a casa nostra e ci prende a frustate”. Dice Maurizio: “Io non ho paura di Gino, ho paura del mi’ babbo. Piglialo te il castoro e portalo a casa tua”. “No, io non lo piglio se no sai il mio quante me ne da?” “E allora lo devo pigliare io?” “L’idea è stata tua”. Insomma, si decise di tornare indietro. Vociammo a Gino e gli dicemmo di non avvicinarsi altrimenti si liberava il castoro nel bosco e non lo ripigliava più. Gli si fece questa proposta: te stai fermo e lontano da noi, noi si rimette il castoro nello stalletto e si porta via la cistella.

Si vedeva che a Gino gli scappava da ridere a vedere questi due scemi che riportavano il castoro nello stalletto e poi schizzavano via di corsa con la cistella vuota. E non fece a meno di vociarci dietro: “Stasera al circolo vedo i vostri babbi e gli racconto tutto”.

Al circolo chissà le risate che si saranno fatti insieme alle nostre spalle. Ma i nostri babbi non ci fecero nulla. A me il mio mi disse che se ci riprovavo a fare il cretino in questo modo una cignatura non me la levava nessuno. E poi, vai a rubare un castoro? Che te ne fai di un castoro?

Il babbo di Maurizio invece gli disse che il castoro non mangia l’erba come i coniglioli. Ci volevano pesci e roba buona per camparlo come vegetali e cortecce d’albero. Meno male che poi l’avete lasciato lì perché se lo portavate a casa chissà come si faceva. Il nonno di Maurizio, che era un uomo pratico e burlone, disse che almeno si poteva rubare una pecora, “che quella qualche cosa valeva e si poteva mettere insieme alle nostre”. Ma non diceva sul serio: era persona talmente onesta che se veramente l’avessimo fatto di portare a casa una pecora sarebbe successo un putiferio. 

Ma la questione non era questa. Di pecore, visto che toccava sempre a noi ragazzi portarle al pascolo, ne avevamo anche troppe, e ci stavano talmente sulle scatole che andare a rubarne una sarebbe stato da veri deficienti e nessuno di noi l’avrebbe mai fatto. I castori invece erano una cosa esotica, nessuno li aveva e noi li avevamo conosciuti altro che nei libri, a scuola, e ci attiravano perché vivevano lungo i torrenti, abbattevano gli alberi coi denti, costruivano dighe e facevano capanne nell’acqua. E poi lo sapevano tutti che la fattoria con quel suo esperimento alla Turbina aveva fallito in pieno: magari se qualcuno gli avesse rubato i castori, perché proprio non sapevano più che cosa farsene. Qualcuno gli aveva suggerito di lasciarli liberi lungo il torrente, ma il guardiacaccia disse guai se ci provavano.

 

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