La Macchia, di Rino Ermini
C’è stato un lungo periodo in cui andavo spesso a camminare nella macchia maremmana. Quello della macchia è un camminare strano. Si va per ore e ore su sentieri fra due pareti di vegetazione che lasciano vedere solo un po’ di cielo sopra la testa, e a volte nemmeno quello perché le piante si chiudono, e si procede come in una galleria di rami, frasche e foglie che fanno giochi strani di luce per il sole che vi penetra a fatica. E guai ad abbandonare il sentiero. Si può provare per qualche metro e procedendo con difficoltà: fra stracciabrache, ginepro, rovi, scope, lentisco, fillirea ed ogni tipo di ramaglia, è impossibile camminare, a meno di non essere un cinghiale, ed alto è il rischio di perdere subito l’orientamento
Raramente ci si imbatte in qualche animale. Mentre frequenti, almeno in alcune zone, sono i resti delle carbonaie: piazzole di qualche metro quadrato di terra nera dove veniva eretto il cumulo conico di tronchetti da bruciare lentamente per essere trasformati in carbone. A volte, nei pressi delle carbonaie, si trova ancora la pozza larga tre o quattro passi e profonda mezzo metro dove si raccoglieva l'acqua piovana per sciacquarsi il viso e le mani prima di mangiare un tozzo di pane o prima di andare a letto nel capanno; o anche per “raffreddare” la carbonaia quando si mettesse a bruciare troppo veloce e quindi si corresse il rischio che la legna, invece di trasformarsi in carbone, si trasformasse in cenere. Rarissime le sorgenti d’acqua buona da bere, dove i carbonai e i tagliatori costruivano un pozzetto in muratura che servisse all’uso potabile per decine di carbonaie nei dintorni. Nei miei giri ne ho trovati qualcuno di questi pozzetti, in rovina e non più in uso, questo è evidente, a volte abitati da una biscia d’acqua. Trovati per caso. Di uno invece mi aveva parlato e dato indicazioni una persona che conosco e all’epoca nella macchia ci cacciava di frodo. Era un pozzetto d’acqua sorgiva, e “rossa”, cioè ferruginosa e quasi frizzante.
Nella macchia ci lavoravano i locali e qualcuno forse ci lavora ancora. Ci venivano anche da molti altri luoghi dove la povertà e il bisogno spingevano all’emigrazione stagionale, e a un lavoro duro che alla fine consentiva di riportare a casa un misero gruzzolo. Uno dei luoghi da dove arrivavano per lavorare in Maremma durante la stagione invernale a tagliar legna e fare carbone, era l’alta valle dell’Arno, il Casentino. Ho conosciuto uno di questi uomini: da giovane, contadino mezzadro in un podere poverissimo, in autunno, finita la raccolta delle castagne e la semina del grano, prendeva la via della Maremma per tornare a casa a primavera. Uno che a vent’anni era a far la guerra in Cirenaica, poi fu prigioniero degli inglesi in India; tornò a casa nel ’48 per riprendere ad andare in Maremma; finché durò, e poi fu bracciante nel Chianti fino alla pensione.
La macchia viene tagliata ancora, anzi sembra si tratti di una attività in ripresa. E spesso ci lavorano operai che vengono dall’Albania, dal Kosovo o dalla Macedonia. Ne ho incontrati. Oggi si usano le motoseghe e poco o niente asce, segoli e pennati. Si usano però ancora i muli per “smacchiare”, cioè portare fuori dalla macchia, in un posto prossimo alle strade dove possono arrivare i camion per il carico, tronchi già tagliati della misura giusta per essere caricati a basto. Quando incontro gruppi di questi tagliatori intenti al loro lavoro, mi fermo a guardare e anche scambiare due parole. E mi torna alla memoria quando da ragazzo vidi tagliare dalle mie parti un bosco misto di querce, lecci e castagni, non proprio macchia, ma simile. E a smacchiare vennero marito e moglie dal Casentino con una decina di muli. Alloggiavano da un contadino che vendeva loro anche il fieno per le bestie. Erano gente di poche parole e lavoravano quanto i loro muli. La donna destò un po’ di meraviglia e qualche commento a mezza voce perché portava i pantaloni, stava dietro ai muli come il suo uomo e ogni tanto la si sentiva tirare qualche madonna. Trattavano i loro animali con attenzione e rispetto. Come ho visto fare ai kosovari. E ho visto che il mulo quando cammina più volte avanti e indietro su un sentiero, mette i piedi sempre nello stesso identico posto dando luogo a buche profonde che, quando piove, si riempiono d’acqua.
Quando ripenso a queste cose mi viene in mente anche un contadino, sempre delle mie parti, che faceva anche il boscaiolo. Lavorava sempre da solo. Qualche volta con mio padre. Usavano ascia, segolo e pennato. Aveva un’asinella per smacchiare. Era uno di quelli che era stato partigiano, e mi raccontava storie della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Era comunista noto, che “dirazzava” a volte anche dal proprio partito; cioè non sempre era d’accordo con la linea politica che esso dettava.
E infine Carlo Cassola, col suo bellissimo racconto lungo “Il taglio del bosco”. Molti lo ritengono il suo capolavoro. E io, nel mio piccolo, sono d’accordo. Un’opera di poesia pura. Un’ode senza retorica ai boschi e al lavoro dei boscaioli. Non c’è nessuna trama. C’è solo un gruppo d’uomini, ciascuno col proprio carattere e la propria storia, che partono una mattina d’autunno inoltrato, dal paese di San Dalmazio, dalle parti di Larderello e Pomarance, ingaggiati da un loro compaesano (che lavorerà con loro), per andare a “tagliare” un grande bosco che questi ha comprato per far carbone dalle parti di Massa Marittima. Lì, appena giunti, costruiscono un capanno dove vivranno insieme per mesi e mesi, per i pasti, per dormire e ripararsi quando piove. Finita la costruzione del capanno tutto è centrato sul taglio del bosco. Il taglio e la vita in comune nel capanno sono fatti di pochi semplici gesti, sempre uguali, di poche parole, di molti pensieri e molta solitudine.
C’è una gerarchia fra loro. Il “padrone” è colui che ha ingaggiato i propri compaesani, ma mai viene chiamato così. Ha da poco perso la moglie ed è rimasto solo con due bambine che in sua assenza gli cura una sorella. Nel bosco da tagliare non lavorano tutti insieme, ma ciascuno per proprio conto. Cioè ciascuno inizia il taglio da un determinato punto e lavora in solitudine, distante dagli altri. Per non disturbarsi a vicenda? Per ragioni di sicurezza: quando l’albero cade, solo un uomo sia vicino? Per non cadere nella trappola della chiacchiera e quindi per non perdere tempo? C’è uno che è addetto a preparare i pasti, è un cuoco ingaggiato per fare il lavoro che fanno gli altri, ma a una certa ora, in tarda mattinata e a sera, stacca prima per andare a preparare desinare e cena. Fra di loro c’è un “capo macchia”, una figura che coordina il lavoro, ma soprattutto è il portatore di un’esperienza superiore a quella degli altri e anche, in un certo senso, della cultura cui tutti si rifanno. Non viene prima di chi ha comprato il bosco, li ha ingaggiati e li paga per il lavoro, ma in un certo senso sì.
Uno dei miei giorni più belli lo ricordo ancora. Era di luglio e avevo girato un’intera giornata nella Macchia della Magona. A sera mi sono fermato a sciacquarmi e cambiarmi gli abiti fradici di sudore alla fontana del cimitero di un piccolo paese. Acqua non ne avevo trovata altra. In quel paese c’era in corso in quei giorni il festival dell’Unità, e dal programma avevo visto che nel dopo cena era prevista una conferenza proprio sulla Macchia che io avevo iniziato a conoscere quel giorno. Quando ho finito di lavarmi erano le otto, l’ora giusta. Sono andato al festival, mi sono diretto al ristorante e mi sono seduto a un tavolo. Quando è venuta una delle ragazze volontarie a prendere l’ordinazione le ho chiesto una bistecca ai ferri, due porzioni di fagioli all’uccelletto, una bottiglia di vino rosso di Maremma, un cestino di pane e una cipolla grossa, di quelle piccanti, non di quelle dolci, e non tagliata a fette, e nemmeno pulita: me la sarei pulita da solo. La ragazza ha capito al volo che aveva a che fare con uno che era stato a giro tutto il giorno nella Macchia o con una specie di bifolco solo e affamato, ed ha eseguito tutto con precisione. Era naturale che, portandomi il vassoio con la cena, non ce la facesse a stare zitta: “Immagino che dopo cena andrai a dormire nella macchia con i cinghiali, perché per l’effetto di questa cipolla e quello notturno dei fagioli chi vuoi che ti tenga con sé? Comunque, se ti cacciano, vieni da me che ti do la cuccia del cane, tanto lui, visto il clima estivo, dorme all’aperto”. Ridendo, l’ho ringraziata della simpatia. Poi con calma e metodo ho fatto fuori senza lasciar tracce la bistecca, i fagioli, la cipolla ed il vino. Non mì è avanzato nemmeno il pane.
Per concludere sono passato dal bar per un caffè e quindi sono andato alla conferenza. C’erano i due relatori. Erano uno esperto dilettante, ma notissimo, di vipere, e l’altro l’assessore all’ambiente del locale Comune. Io ero l’unico del pubblico: ero solo. platea deserta; erano tutti, e tutte, al ristorante, al bar e nella pista da ballo. Assessore e viperaio, imperterriti e cocciuti, hanno fatto comunque la loro conferenza. Ottima. Me la sono goduta fino all’ultima parola. E mi sono innamorato della Magona, dove sono tornato decine di volte e dove ho portato a fare ben cinque trekking, nel corso degli anni successivi, altrettante classi della mia scuola. È stato il mio grazie all’assessore e al viperaio, alla Macchia e alla gente di quelle campagne. Anche al festival dell’Unità sono tornato numerose volte. Cena sempre uguale. Criticabili quanto si vuole, ma per me non è un bene che ora quei festival non ci siano più.