Cena a Montemignaio, in Casentino, molto tempo fa, di Rino Ermini (n°281)
Questa è una storia, che non è una storia, di oltre un secolo fa. Erano a tavola per la cena. La tavola l’avevano tirata vicino al fuoco acceso nel camino, per sentire meno il freddo e anche per vederci meglio perché la lampada ad acetilene non faceva granché luce. La famiglia era composta da un uomo sui quarant’anni, da sua moglie che ne aveva tre di meno, dai loro tre figli, uno di quattordici anni, uno di dieci e una bambina di sette, e dal padre di lui, vedovo, che aveva una settantina d’anni.
La nuora mise nel piatto di ciascuno due fette di polenta di farina di castagne, due patate lesse e un pezzo di formaggio di latte di pecora. La ruota del pane era in mezzo alla tavola. Spettava all’anziano tagliare le fette. C’era anche un fiasco di vino. La legna per il fuoco era l’unica cosa sempre abbondante perché dove vivevano, in una delle ultime case verso la montagna, era più facile che ci fossero boschi che non terre coltivate. Il vino e l’olio, di cui usavano con molta parsimonia, di cui “facevano a miccino”, come si diceva nella loro parlata, lo prendevano da un contadino nell’altro versante dei monti, quello che dava a solatio, in cambio di farina di castagne e qualche forma di cacio. Nei loro campi, in quel loro versante che guardava a Nord, viti e olivi ci sarebbero vissuti male, quindi solo qualcuno si provava a coltivarli, ma i risultati non erano mai soddisfacenti.
Il vecchio, come faceva spesso, disse alla nuora di levargli dal piatto una patata e una fetta di polenta per darla ai ragazzi, ché lui poteva anche farne a meno. La donna fece come lui chiedeva perché sapeva che era sincero in quel che diceva, ma non mancava mai di dirgli che non avrebbe dovuto, i ragazzi mangiavano abbastanza. A quel punto anche il ragazzo più grande prese una patata e la divise in due per darne una parte ciascuno a fratello e sorella. Ecco allora che il padre divise la sua polenta fra la moglie e i figli. Insomma era in atto un rito di affetto nella famiglia. Nient’altro.
Il nonno, cosa che accadeva ogni sera, chiese al ragazzo del suo nuovo lavoro nei boschi. Il ragazzo aveva trovato da lavorare con un boscaiolo che aveva con sé cinque dipendenti. E poi a quello di dieci anni dove aveva portato le pecore a pascolare. Alla bambina di sette chiesero della scuola. Ma lei rispose un po’ vagamente, e andò su tutt’altra questione. Alla befana avrebbe voluto una bambola. Se farai la brava disse il nonno. E a me? disse quello di dieci anni. Vi arriverà qualcosa a tutti e due, disse la mamma. Anche i fichi secchi e le arance, se il bottegaio li porta. O non dovrebbe portarli la befana? chiese la bambina. Sì, disse la madre, te li porta quella “befana della tu’ mamma”. Il termine befana era usato a volte in senso un po’ ironico se lo si dava a una donna anziana, o affettuoso se detto della propria moglie; e sempre affettuoso se ci si rivolgeva a una bambina col diminutivo di befanina. Fu il nonno che si rivolse al ragazzo di quattordici anni: “A te ormai la befana non ti porta più nulla, è un bel pezzo che non ci credi più, e la befana te la fai da te perché lavori e con i tuoi soldi qualcosa ti ci scappa per comprarti un paio di pantaloni o una giacca.
Il padre entrò nel discorso del lavoro del ragazzo grande, dicendogli che lavorasse per le sue forze e la sua età, non facesse più del dovuto, soprattutto a sollevare tronchi, perché da giovani si muore dalla voglia di far vedere quanto si è bravi, ma si fa anche presto a farsi male e a rovinarsi. Me l’ha detto anche il capo macchia, rispose il ragazzo, che lui ha piacere che io lavori bene, ma che stia attento perché a farsi male ci vuole poco e poi son dispiaceri per tutti.
Era sabato, e il giorno dopo non si sarebbe andati a lavorare. Al prete ci credevano poco, ma la domenica serviva per tirare il fiato. C’era solo da pulire la stalla della vacca e quella del mulo, fare il segato e dar da mangiare alle pecore. Portare le pecore al pascolo, perché gli animali non conoscevano domenica, o governarle anche loro nella stalla. Ma insomma era giorno di riposo, non completamente, ma c’era da accontentarsi.
Il ragazzo, quando finirono di mangiare, disse che avrebbe voluto andare all’osteria, in paese, Se non fosse freddo e non mi dolessero le gambe verrei anch’io, disse il vecchio; e poi ho da finire di fare quel cesto che ho cominciato due sabati fa, e preferisco rimanere a casa accanto al fuoco a lavorare.
Via, disse il figlio, a lavorare... a divertirvi, perché lo so che a voi vi piace star li a far quel tipo di lavoro. Vi piace più stare al caldo a fare un cesto o un cestello piuttosto che ire all’osteria a bere un bicchiere. “Toh, rispose il vecchio, e poi, se voglio bere un bicchiere, ce l’ho anche a casa mia. Sicuro, ma se stasera lo finisco, il cesto, sabato che viene vengo anch’io all’osteria”.
La madre andò vicino al ragazzo, mise la mano nella tasca del grembiule da cucina che aveva addosso, ne tirò fuori un paio di monete e gliele dette. Fattele bastare, disse il padre, e ricordati che se giochi devi giocare al massimo un bicchiere di vino. Ti bastano? Chiese il padre.
Il ragazzo si avviò alla porta, si mise addosso una giubba pesante che era stata di suo padre e uscì. “Certo che mi bastano babbo”. Il padre uscì pochi secondi dopo di lui.
Scambiò nell’aia al chiaro di luna ancora due parole col ragazzo. Riporta qualche soldo se vuoi far contenta tua madre. Non spenderli tutti. Non è che si abbia bisogno proprio di quelli, ma tua madre ci tiene a vederti attento a certe cose, a vederti attento nelle spese.
Se qualcuno parla dell’anarchia e di quelle cose lì, ascolta, sei un ragazzo e per ora devi ascoltare. Ascolta chi parla a favore dei poveri e di quelli che lavorano nei campi e nei boschi. Se c’è qualcuno che vocia un po’ troppo forte ascolta, ma per ora non dargli retta, ma nemmeno contro. Se hai curiosità di qualcosa chiedi, e ancora ascolta. Insomma, come ti ho detto altre volte, le nostre idee non possono essere che quelle, ma tu sei un ragazzo, ed è bene che per ora tu ti goda un po’ la tua tranquillità, con quelli che hanno la tua età. E con le ragazze. E ricordati che non devi mai mancare di rispetto, soprattutto alle ragazze. Poi, quando sarai più grande, vedrai da te che cosa fare.
E se qualcuno vuol bere un bicchiere con te paga pure te, ma non farlo sempre. Regolati.
Sapeva di dire al figlio le stesse cose da un po’ di tempo a questa parte, ma che doveva fare un padre con il figlio, se non parlargli, educarlo con buone parole e buoni consigli, via via che cresceva, e adeguandosi all’età del ragazzo?
Il ragazzo se ne andò. Il padre tornò in casa. Il vecchio era sul canto del fuoco a lavorare al suo cesto. La madre stava finendo di rigovernare. Chiamò la bambina perché asciugasse i cocci. Così si chiamavano allora piatti e stoviglie. Poi si mise a far la calza davanti al fuoco.
Il padre e il ragazzo si misero ad assottigliare il fondo degli sbrocchi di castagno e levare i nodi alle canne spaccate, due operazioni che andavano fatte prima di utilizzare queste cose per fare il cesto, insomma si misero a dare una mano al vecchio.
La bambina disse: babbo, perché non mi fai le brici? Il padre tiro giù la padella bucata dal chiodo dov’era appesa, andò a prendere nella “stanza”, così allora si chiamava il granaio, un po’ di castagne, tornò giù e si mise a castrarle. Che voleva dire inciderne leggermente la corteccia perché altrimenti, a causa del vapore che si formava all’interno e che senza un taglio non poteva uscire, potevano “scoppiare” e sbriciolarsi completamente. Poi le cosse. Sempre parlando.
Quando le castagne furono cotte il padre le mise a “stufare”. Le mise cioè in un recipiente, avvolte in uno straccio di lana e ancora bollenti, in modo che si mantenessero calde e in un certo senso proseguissero lentamente la cottura.
Poi le mangiarono. Il ragazzo ogni tanto ne sbucciava una per sua madre o sua sorella, perché gli piaceva sbucciarle; era veloce e bravo a farlo. E glielo dicevano, e lui si sentiva orgoglioso. A sua madre gliele sbucciava anche perché lei non poteva sporcarsi le mani col nero della buccia bruciata visto che stava facendo la calza.
Il nonno diceva sempre che con le brici ci voleva un mezzo bicchiere di vino. La nuora andò a prendere il fiasco e i bicchieri.
Stanchezza e sonno cominciavano a farsi sentire, ma era bello star lì accanto al fuoco, e poi qualcuno, di solito il padre, aspettava per andare a dormire che tornasse il ragazzo.
La moglie intanto aveva già messo il fuoco a letto, cioè lo scaldino pieno di brace e coperto di cenere appeso allo scaldaletto sotto coperte e lenzuola. Lo scaldaletto qualcuno lo chiamava “prete”.
C’erano in questa casa anche un cane legato nell’aia alla catena e un paio di gatti. Non li tenevano in casa. Il cane doveva fare la guardia, non tanto per la gente, quanto per qualche volpe che tentasse di avvicinarsi troppo al pollaio. E per dargli al cane un minimo di riparo dal freddo gli avevano costruito un casotto di legno a sua misura, con dentro una bracciata di paglia asciutta. I gatti giravano per le capanne e il fienile in cerca di qualche topo. E se volevano dormire avevano il loro “covoli”, o nel pagliaio o fra il fieno o chissà in quale angolo, comunque così nascosto e riparato che nessuno avrebbe potuto noiarli.
Postfazione al racconto, redazionale
Il bel racconto di Rino Ermini, ambientato a Montemignaio, ha fatto ricordare all’editore di Cenerentola le sue vecchie ricerche antropologiche sul Casentino, i cui risultati furono pubblicati su diverse riviste e, soprattutto, in una monografia intitolata “Recenti variazioni bio-demografiche nella popolazione casentinese”, edita da “Il Sedicesimo”, nel 1991.
Da essa riportiamo alcuni dati sul comune di Montemignaio che possono aiutare a inquadrare il ritratto dipinto da Ermini.
«Montemignaio, il più isolato dei tre comuni studiati (agli inizi del XIX secolo non era raggiunto da strade rotabili) aveva, nel 1825, 1.410 abitanti (790 nei confini attuali) ed una superficie di 4.453 ettari; di questa, l’1% era seminativo vitato, il 7% seminativo nudo, il 5% bosco, il 24% castagneto, il 60% sodo a pastura (…). Molti dei suoi abitanti erano, all’epoca, carbonai; numerosi anche i contadini e i pastori. Tra le donne molte venivano registrate, negli atti di matrimonio, come filatrici (...).
Nel 1871, al censimento, contava 974 abitanti presenti; nel 1921 ne contava 1.589. Anche qui, rispetto a cento anni prima, la popolazione era raddoppiata (…).
Pochissimi, nel 1911, gli individui impiegati negli opifici e nelle imprese industriali: 22 addetti (1,4% della popolazione presente). Nel complesso, quindi, una realtà assai più “statica” di quella di Bibbiena, se così si può definire una situazione caratterizzata da un massiccio movimento migratorio stagionale verso la Maremma.
Questa “staticità” renderà Montemignaio particolarmente sensibile alla crisi dell’economia montana; e sarà proprio un mutamento nelle caratteristiche del movimento migratorio, quello che porterà i casentinesi a dirigersi verso i centri urbani, a provocare, a partire dal periodo fra le due guerre, lo spopolamento del comune, facendo scendere, nel 1971, i suoi abitanti presenti al numero di 554 (circa un terzo, rispetto a soli cinquant’anni prima). La crisi del sistema di vita basato sulla tradizionale economia montana è evidenziata anche dai risultati relativi all’occupazione: gli addetti al settore primario, che nel 1951 costituivano l’83,3% della popolazione attiva, saranno, nel 1971, il 36,6% e, nel 1981, il 9,9% degli occupati».
Interessanti sono poi i dati relativi alle caratteristiche fisiche della popolazione, rilevati alla visita di leva. La statura media dei coscritti di Montemignaio nati negli anni 1859-63 risulta di soli 161 centimetri! I riformati alla prima visita, su 52 maschi esaminati, furono ben 12 (il 23%) e i rivedibili 6 (12%), due dei quali riformati successivamente. Il che la dice lunga sulle loro drammatiche condizioni di vita e di lavoro.