Augusto Trinciapolli, di Rino Ermini
Mi chiamo Gosto Trinciapolli. Che poi Gosto sarebbe Augusto, ma in questa città se a uno per strada gli dicessero Augusto tutti lo prenderebbero per il culo. E perché? Vai a saperlo! Perché questa gente è fatta male, ha le sue abitudini e se gli chiedi perché di uno che si chiama Leonardo non hanno nulla da dire, mentre ironizzano su Augusto, nemmeno capiscono la domanda. Figuriamoci poi se uno si chiama Augusto e per di più ha per cognome Trinciapolli, un cognome che da queste parti sarebbe anche inesistente, e non si sa da dove venga. La conclusione è che con un simile nome e un simile cognome ti prendono per il culo a vita. Tiriamo via Trinciapolli, che anch’io me ne vergogno, ma Augusto che c’entra?
Non sarebbe finita qui. Avrò avuto un quattordici anni, cioè una quindicina meno di quanti ne ho ora, che mi capitò d’esser preso a mestolate dalla mia mamma. Mia mamma era proprietaria di un bar in un quartiere della nostra città, un bar popolare, mica un bar di lusso, ma insomma sempre un bar di città dove la clientela non era certo di gente con la puzza al naso, ma questo non vuol dire nulla: si trattava pur sempre di gente che voleva essere rispettata. E che era successo? Era successo che avevo preso l’abitudine di metter le mani di nascosto nel frigo del gelato sciolto che si vendeva in quei coni di biscotto su cui si metteva a palettate; metter le mani vuol dire che tiravo su la paletta e le davo due o tre belle leccate e poi la rimettevo dentro infilata nel gelato bello duro delle vaschette. Mia madre mi vide e io non me ne accorsi, così che venendo fuori da dietro il bancone mi piombò addosso e prima mi prese a scapaccioni e poi a mestolate con la paletta del gelato. La gente che era al bar, al trambusto si girarono tutti; lì per lì nessuno capì quel che stava accadendo, ma mentre alcuni rimanevano stupiti, altri, stronzi, comunque sghignazzavano divertendosi alla scena in sé e senza saperne nulla.
Questa storia, che a me pare abbastanza triste, causò la disaffezione al gelato di quelli che avevano assistito alla scena e di quelli, gente del nostro quartiere, che avevano sentito raccontarla da altri. Mia madre da quel momento in poi il gelato lo vendeva solo a qualcuno che veniva dagli altri quartieri o ai turisti ignari di tutto. E gli avventori ridacchiavano ogni volta che qualcuno di fuori comprava un gelato e facevano fra sé battute spiritose. Il bello è però che erano stati proprio loro a mangiarsi il gelato cavato dalle vaschette con la paletta da me succiata, mentre su chi il gelato lo comprava ora c’era poco da ridere: la mia mamma s’era premurata di comprare una paletta nuova visibilmente diversa dalla precedente, perché si capisse che c’era stato un cambio. Era finita qui questa storia ridicola.
Da quel momento qualcuno cominciò a chiamarmi Paletta. Paletta Trinciapolli, mi dicevano. Soprattutto i miei compagni di scuola sia alle medie e, peggio ancora, nel primo anno delle superiori. A me veniva da pensare che era proprio una stronzata. Il peggio è che pensavo che se fosse successo a un altro io sarei stato il primo a prenderlo in giro. Volli essere onesto con me stesso. Mi domandavo che cosa avrei fatto io. Mi sarei comportato esattamente come si stavano comportando gli altri. Ma arrivare a questa conclusione, ed essendo io la vittima in tutta questa storia, mi portò a capire quanto fosse vigliacco divertirsi alle spalle di qualcuno in questo modo, partendo da una cosa che poteva anche far ridere, ma erano gli altri a ridere, non il malcapitato. Capii insomma che è bello ridere quando si ride insieme, non quando il gruppo ride magari di un difetto di qualcuno e glielo cuciono addosso e quello diventa uno zimbello, non riesce più a liberarsi, non vive più.
Questa storia non finì bene. Io ci stavo malissimo. E allora i miei genitori parlarono con me e con una sorella di mia madre che era sposata e viveva in un altro quartiere. Soprattutto mia madre si sentiva coinvolta perché intanto è ovvio che le dispiacesse che fosse capitata al figlio una cosa del genere. Ed era un continuo rammaricarsi e rivangare il fatto che la cosa poteva dirmela in privato, non fare la sceneggiata pubblica; si sentiva insomma responsabile di quel che mi era successo dopo.
La soluzione che trovarono, lei e la sorella e rispettivi mariti, fu che io mi trasferissi dagli zii nel loro quartiere e che cambiassi anche scuola, insomma che sparissi da casa mia e dalle vie della città dov’ero nato e cresciuto.
La cosa funzionò, cioè non ebbi più addosso quel soprannome e non ebbi a che fare più con gente che mi conosceva e che sapeva del fatto all’origine della mia disgrazia. Andai insomma ad abitare altrove, sia pure senza cambiare città. E i miei genitori li vedevo più a casa degli zii dove ovviamente venivano a trovarmi quasi ogni giorno che a casa mia dove pure qualche volta andavo.
Fu una situazione che durò un bel pezzo, durò degli anni. E nel mio quartiere di fatto alla fine non ci rimisi i piedi.
Giunto il tempo dell’Università, che pure feci nella mia città e che pure mi fece incontrare qualche rara volta qualcuno che si ricordava di me e del mio soprannome, fu l’occasione per andare a vivere da solo. Non che non stessi bene con gli zii e tanto meno loro volevano liberarsi di me; ma pensai che fosse l’occasione per trovarmi due stanze in affitto e andare a vivere per conto mio. Ero uno parco e mi accontentavo del necessario, e per i miei genitori non fu un problema continuare a mantenermi ancora per alcuni anni. Così feci.
Così finì quella mia strana storia. Insomma mi ritrovai ad andare a vivere da solo e indipendente come tanti altri allora facevano, ma attraverso una specie di fuga da una storia fastidiosa, attraverso una strada piuttosto storta e inusuale. Come se dovendo andare da Firenze a Pisa e andarci regolarmente col treno passando da Empoli e Pontedera, ci fossi invece andato a dorso d’un somarello, passando dall’Abetone, scendendo a Lucca per la Valle del torrente Lima, traversando il Monte Serra ed entrando in Pisa da Ghezzano.