Letture
La vendemmia com’era un tempo, di Rino Ermini (n°216)
Nel nostro podere, meno d’una decina di ettari fra campi e boschi, la vendemmia durava un paio di giornate. Faticose per gli adulti. Per i ragazzi erano giornate struggenti, complice forse l’aria di quella stagione (“Non so se tutti hanno capito ottobre/ la tua grande bellezza/ nei tini grassi come pance piene/ prepari mosto e ebbrezza/ prepari mosto e ebbrezza”).
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Sanremo, di Rino Ermini (n°213)
Quando mi affiora alla mente la parola Sanremo la associo a tre nomi e al parto di una vacca. I nomi sono Calvino, Libereso Guglielmi e Tenco. Il parto di una vacca ora ve lo racconto. Avrò avuto sette od otto anni ed erano un po’ di giorni che in casa si parlava di andare a vedere Sanremo. Questo nome allora non mi diceva niente. Qualche anno dopo, per me che amavo la geografia, sarebbe stato un paese sul mare dove si coltivavano i fiori. Per mia madre e una sua amica contadina che abitava in un podere a un chilometro dal nostro, doveva essere qualche altra cosa. Parlavano di canzoni, cantanti. Un giorno le chiacchiere furono ancora più fitte e sentii dire che la sera mia madre e la sua amica, si chiamava Eva, sarebbero andate al circolo dell’ACLI per vedere questo Sanremo alla televisione. Così, verso le otto, passò Eva e insieme, a piedi, si incamminarono chiacchierando.
Lia Bonarini Bagiardi, di Rino Ermini (n°208)
Lia Bonarini Bagiardi, contessa, era una che veniva da una famiglia nobile proprietaria di poderi. Quando l’ho conosciuta era ormai molto in là con gli anni, la sua famiglia non c’era più, l’essere nobile non contava più nulla, e in quanto ai poderi gliene erano rimasti tre, con sopra altrettante famiglie mezzadrili. Anche la mezzadria, nemmeno a farlo apposta, era sul punto di morire. Tanto è vero che i figli dei suoi mezzadri di lavorare la terra non ne volevano sapere: erano in tutto sei e due, di età intorno ai vent’anni, già lavoravano come operai in città, preferendo alzarsi alle quattro la mattina e tornare a casa alle otto di sera, ma trovarsi ogni mese un salario, piuttosto che fare la stessa cosa per lavorare il campo sotto casa, ma a fine mese non trovare nulla o quasi; gli altri, di età fra i dieci e i quindici anni, andavano a scuola e dicevano che volevano studiare fino a diventare dottori. Non c’era speranza.
La femminista, di Rino Ermini (n°205)
Passavamo l’estate, se eravamo studenti, o le ferie, se eravamo lavoratori, nei modi più disparati, facendo grandi o piccole cose, quasi sempre ben riuscite e piacevoli. C’era chi andava ad Amsterdam e chi al mare in Sardegna, chi a fare un giro a piedi sull’Appennino con tenda e sacco a pelo nello zaino, chi una settimana a Rimini e chi dalla mattina alla sera a oziare seduto davanti alla Casa del popolo.
Gigi del Cuti, di Rino Ermini (n°202)
Mio nonno paterno si chiamava Luigi Affortunato, noto nelle campagne dov’era nato e vissuto a lungo col nome di Gigi del Cuti. Da dove venisse quel “Cuti”, soprannome della famiglia forse da generazioni, non l’ho mai saputo.
Adele Faleni, di Rino Ermini (n°200)
Adele Faleni era di diciotto anni d’età e lavorava da quattro in una fabbrica di cordami, sacchi e altre cose di canapa, questa pianta che si coltivava giù al piano in quei terreni che essendo poco o niente adatti al grano si cercava di utilizzare in altro modo. La fabbrica aveva una trentina di operai, più donne che uomini. Adele era di Gropina, un borgo di poche case su verso la montagna, dove finivano olivi e viti e cominciavano quercioli e castagni.
Gino Berciani, di Rino Ermini (n°198)
Questo, più che un racconto, potrebbe essere un ritratto. Ma qual è la differenza quando siamo fra noi, a raccontarcene qualcuna tanto per passare il tempo? Comunque sia, è sempre qualche cosa di cui posso parlare con cognizione di causa perché a quel tempo in quel quartiere ci lavoravo come operaio saldatore dal fabbro Renzoni.
Primetto Brandi, di Rino Ermini (n°195)
Primetto Brandi quando partì per andare a fare il militare di leva era normale e quando tornò era grullo. Questo lo diceva lui. A noi, a dir la verità, quando tornò a casa dopo il congedo ci sembrava più o meno come prima, semmai un po’ rincoglionito, ma né più né meno come erano tutti quelli che tornavano da fare il militare e che rimanevano ancora per qualche mese con un’aria un po’ beota, ma poi piano piano si rimettevano e tornavano normali. La sua tesi era precisa e netta: se mi avete preso a fare il soldato vuol dire che ero normale, e se ora sono grullo siete voi che mi avete rovinato, quindi dovete pagare. Io non so come andò.
Un sogno, di Rino Ermini (n°191)
Stavo camminando lungo un sentiero perso in boschi di querce nell’alta val Tiberina. Chiara e fredda giornata d’inverno, senza vento, solo la luce a tratti sembra muoversi fra i rami e sul crinale dei poggi. Di rumori niente, a parte quello leggero degli scarponi sulla terra fredda, e quello dei pensieri anch’essi leggeri. Vedo all’improvviso fra i cespugli poco avanti a me, prima uno poi un altro maiale che pasturano grufolando nello strato di foglie. Mi sembra strano. Qui mi aspetterei il cinghiale. Di certo ci sarà vicino una casa di contadini dove allevano maiali all’aperto e liberi. Dopo un po’ ne vedo altri tre, più grossi, e un verro e una scrofa. Animali belli.
L'acqua santa e il foco benedetto, di Rino Ermini (n°188)
Sempre parlando di cose religiose di quand’ero ragazzo, qualche giorno prima di Pasqua, se mi ricordo bene il lunedì e il martedì della settimana santa, il prete, accompagnato da due chierichetti (che da noi a dir la verità si chiamavano “sagrestani”), faceva il giro della parrocchia per la benedizione delle case. Era l’occasione anche per le grandi pulizie di primavera: gli uomini nelle stalle, nelle cantine, nei fienili e sotto le logge, le donne in cucina e nelle camere si davano un gran da fare per nettare a fondo almeno una volta all’anno, e scrollarsi di dosso il peso dell’inverno.
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Un uomo e le sorgenti, di Rino Ermini (n°184)
Dalla mie parti vive un uomo, che dovrebbe avere ora poco più di settant’anni, il quale alcuni anni fa, stufo del mondo, decise di abbandonare il paese ed i parenti per andare a vivere in montagna, in una foresta di faggi. Come rifugio decise di stare in una antica e diroccata capanna di carbonai, a quattro ore di cammino dal genere umano. La sistemò alla meno peggio facendoci un focolare e un posto per dormire, senza usare altro che pietre e legno.
La processione, di Rino Ermini (n°183)
Quasi sessant’anni fa uscì un libro che le autorità vaticane, nonostante la prefazione di un vescovo e il regolare nihil obstat, fecero ritirare velocemente dal commercio. In esso un prete di una parrocchia toscana di campagna analizzava con acume e dati inoppugnabili la religiosità dei propri parrocchiani. È un libro che ho letto e riletto, non solo perché mi pareva un’ottima indagine sociologica, ma anche perché ci vedevo fotografata la realtà delle campagne in cui ho vissuto da ragazzo. In fondo, a leggere questo libro, mi divertivo nel rivedere me stesso e la mia gente contadina nel vivere quotidiano di allora, in particolare nel rapporto con la religione, il prete e la chiesa.
La memoria, di Rino Ermini (n°178)
Mio padre ancora racconta fatti del fascismo, della guerra, della Resistenza e della vita contadina, fatti di cui ha avuto esperienza diretta o che sono accaduti nel raggio del suo mondo.
Due fratelli, di Rino Ermini (n°177)
Avrò avuto dieci anni e mio fratello sette ed eravamo a pascolare le pecore fra boschi e campi incolti lungo il Borronaccio, una forra profonda con un filo d’acqua che garantiva rane e bisce. C’eravamo tolti le scarpe per stare nella poca acqua del rivo e sentire sabbia e fango sotto i piedi.