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Categoria: Musica
Creato Venerdì, 01 Gennaio 2010

La crisi della musica leggera, di Roberto Zani (n°120)

Il mercato discografico dal XX al XXI secolo: la “lotta” tra la domanda e l’offerta

Un’indagine che volesse individuare le cause della crisi della musica leggera esplosa nell’ultimo decennio in termini sia artistici che economici, di creatività e di fatturato, dovrebbe considerare numerosi fattori : la concorrenza di altri settori come quello dei videogames e più in generale dell’elettronica di consumo; la differente funzione della musica che invade gli ambienti  (pubblici esercizi, centri commerciali, alberghi, sale d’aspetto…) come “piacevole” sottofondo che induce al consumo di altre merci; l’impiego più “qualificante” negli spot pubblicitari; la rivoluzione tecnologica del digitale, di internet e del formato Mp3 (che ha spiazzato l’alto prezzo dei Cd, causando il fenomeno del download “pirata” dei brani)… Tutto ciò ha contribuito a cambiare il modo di produrre e di ascoltare la musica, le sue funzionalità. Nel secolo scorso quello della musica leggera è stato, insieme al cinema, un grande mercato di massa connotato da forti contenuti artistici e culturali. Ma lo è ancora?

Per ora, ci limitiamo ad un’analisi “tradizionale” considerando   l’evoluzione   del mercato discografico, consapevoli della parzialità di tale impostazione poiché tale mercato è influenzato dagli altri fenomeni elencati. Tuttavia, ci indica già alcuni meccanismi che contraddistinguono la crisi.

Il mercato discografico ebbe un primo sviluppo tra le due guerre negli Usa come veicolo soprattutto delle grandi orchestre di swing, ma esplose a livello mondiale negli anni ’50 con il rock’n’roll. Gli anni che hanno fatto segnare le migliori performance del mClassifica degli album più venduti in Italia -2008ercato mondiale (in buona parte costituito da Usa e Gran Bretagna) furono il 1955-56, il 1966 e il 1968. Negli Usa il volume d’affari discografico è triplicato dal 1965 al 1975, passando da 800 a 2360 milioni di dollari (1). Il pop (abbreviazione di “popular music”, cioè di musica di larga diffusione) e più in particolare il rock, sono legati alla diffusione di subculture giovanili (teddy boys, mods, rockers, hippies, punks, new wavers, x generation di Seattle ecc…) e controculture non riconducibili a mode lanciate dall’industria culturale. Così il mercato discografico, pur con tutte le sue ambiguità intrinseche (mercificazione della musica, feticizzazione del disco, consumismo…), è stato attraversato per lunghi periodi da una “lotta” tra la domanda costituita da queste subculture e controculture, composta cioè da consumatori “attivi” che nel mercato cercavano una soddisfazione a proprie esigenze nate “dal basso”, e l’offerta predeterminata dal marketing e dai piani delle case discografiche. Quest’ultima ha spesso dovuto inseguire la domanda giovanile: negli anni ’60 o nel 1977 è stata costretta a produrre di tutto, non avendo la minima idea di cosa potesse avere successo o meno. Nel 1968 uno slogan pubblicitario di un’importante casa discografica recitava: “I veri rivoluzionari sono alla Columbia”, strizzando l’occhio alla contestazione giovanile che sognava la creatività al potere, ma indicando anche una sorta di rivoluzione “soft” costituita dalla liberalizzazione dei costumi e dei consumi, e accreditandosi come veicolo di quelle riforme che i giovani desideravano più o meno radicalmente. Il Capitale fu costretto a inseguire nel terreno musicale ciò che stava ai margini del sistema, dimostrando però (come sempre) grandi capacità di adattamento e rinnovamento. Un fenomeno non molto diverso è accaduto anche in Italia, con il movimento dei cantautori.

La musica rock e pop è stata a lungo espressione di subculture giovanili che si opponevano alla cultura ufficiale degli adulti: stili di vita, rifiuto dell’autoritarismo e del paternalismo, sogni di un’altra società… Contenuti culturali e politici magari ingenui Classifica degli album più venduti in Italia -2008e ambigui, ma che stabilivano una relazione almeno parzialmente autentica tra le comunità giovanili e gli artisti dello star-system. Ovviamente anche il ruolo della star restava ambiguo perché finiva inevitabilmente per diventare un prodotto delle case discografiche, ma doveva anche esprimere le istanze di quelle subculture giovanili e controculture da cui spesso proveniva e di cui era portavoce.

I contenuti dei testi non erano così effimeri come certi motivetti pop sembravano suggerire. Ma soprattutto, gli anni ’60 e in parte i ’70 furono anche quelli maggiormente contrassegnati da innovazioni artistiche e da un’attenzione di massa verso gli artisti più sperimentali. Un parametro oggettivo è costituito dalle classifiche di vendita: negli anni migliori sia da un punto di vista artistico che economico, erano contraddistinte da un’altissima volatilità, con gruppi sconosciuti che si avvicendavano ai primi posti da una settimana all’altra.    

La “Grande Depressione” del mercato discografico è esplosa intorno al 2000, il fatturato mondiale è via via ripiombato ai livelli degli anni ’80. Ma anche nel secolo scorso ci fu un periodo di crisi (anche se non paragonabile a quello attuale): dal 1979 al 1985 (2). Questa fase fu contrassegnata da una concentrazione di capitale in poche multinazionali (major) con il ridimensionamento del ruolo di “talent-scout” svolto dalle etichette indipendenti (indie); la promozione fu concentrata su poche vecchie star, ritenute in grado di assicurare buoni risultati di vendite; ci furono numerose reunion di vecchi gruppi; i negozi furono invasi da ristampe di dischi divenuti dei classici, raccolte, cover di vecchi brani. Infine, le classifiche delle vendite si stabilizzarono. Il principio seguito dalle case discografiche era: “quello che va bene oggi deve andare bene anche domani”, con lievi ritocchi indicati dagli studi di marketing sulle abitudini di consumatori divenuti sempre più passivi. Eppure i dati storici parlano chiaro: il mercato trainato dalla domanda funzionava, quello determinato dall’offerta e dagli studi di marketing delle major molto meno!

L’interpretazione del mercato discografico come terreno di lotta tra una domanda di consumatori attivi e un’offerta pianificata dalle major, ci aiuta a capire perché la musica cosiddetta “leggera” ha saputo trasmettere bisogni di liberazione culturale, sociale, sessuale. Ha sviluppato l’immaginario, i sentimenti e i desideri di generazioni di consumatori. Ora però dobbiamo chiederci come, nel XXI secolo, la situazione è cambiata. 

Hit parade revival

                         
Se è vero, come abbiamo visto per il XX  secolo, che la volatilità delle classifiche di vendita è un indicatore di crescita del mercato discografico, quella che riproduciamo qui a fianco è sconfortante. Quasi tutti gli artisti hanno raggiunto stabilmente il successo da un minimo di 15 anni fa fino ad oltre i 40. Le poche eccezioni (Allevi, Winehouse, Biondi) sono il frutto di grandi operazioni di marketing, volte a ricondurre nell’alveo del pop altri generi più colti (jazz, soul, classica) secondo meccanismi ampiamente collaudati. L’aggravante è che i due terzi degli album sono costituiti da raccolte o da registrazioni di concerti, cioè da riproposte di brani già editi. Perciò il principio a cui si ispirano le case discografiche, nell’attuale periodo di crisi del mercato e di completo cClassifica degli album più venduti in Italia -2008ontrollo sulla domanda, ha avuto un’ulteriore involuzione: non più, come negli anni ’80, “quello che va bene oggi deve andare bene anche domani”, bensì “quello che andava bene ieri, deve andare bene oggi e anche domani”.

Il ruolo delle vecchie star assume dimensioni grottesche: i Guns N’ Roses hanno impiegato 14 anni per registrare l’album Chinese Democracy, costato 3 milioni di dollari (il più caro della storia). E che dire dell’enorme businnes scaturito dalla morte di Michael Jackson? Le cause del decesso sono rimaste poco chiare, specie considerando che il “re del pop” doveva ai suoi creditori circa 500 milioni di dollari (secondo il Wall Street Journal); inoltre le precarie condizioni psicofisiche, per bocca dello stesso Jackson, mettevano in serio pericolo l’imminente tour di 50 date per il quale erano già stati venduti un milione di biglietti.

Le poche radio che tengono in qualche considerazione la qualità della musica propongono rotazioni basate solo sui “classici”. Assistiamo ad un’invasione senza precedenti di cover band. Per quale ragione una casa discografica dovrebbe rischiare qualcosa nella sperimentazione di nuovi generi o gruppi, se ciò non interessa ai consumatori? Senz’altro, una strategia vincente relativamente nuova è quella di puntare sui consumatori più indifesi, cioè i bambini: nel 2007 l’album più venduto nel mondo è stato High School Musical 2, all’11° posto della stessa classifica troviamo Hanna Montana 2 (fonte IFPI).

 

Crisi e concentrazione

Anche per le molteplici ragioni “esterne” già sommariamente elencate (riduzione della musica a “valore aggiunto” di un altro bene o servizio da vendere, concorrenza di altri divertimenti e consumi elettronici), l’attuale mercato musicale dei Cd e del download legale di musica digitale da internet e dai cellulari - che hanno sostituito dischi e musicassette - è in crisi a partire dal 2000: il fatturato globale è ritornato ai livelli degli anni ’80. La concentrazione iniziò con la crisi degli anni ’80 e oggi il mercato mondiale è controllato per il 75% da quattro major (in Italia raggiungono quasi il 90%): Sony-BMG, Warner, Universal (posseduta dalla multinazionale francese Vivendi) ed EMI (acquistata nel 2007 da un fondo di investimento privato che ha subito operato forti ridimensionamenti).

Eppure, l’attuale tecnologia digitale dovrebbe agevolare le etichette indipendenti grazie all’abbassamento dei costi di produzione; ma il loro ruolo si è ridimensionato perchè sta scomparendo la figura del consumatore attivo, alla ricerca di novità che diventano poi indispensabili allo sviluppo del mercato. Inoltre, le esperienze di numerosi fallimenti economici del passato, hanno fatto sì che la logica del profitto (e a brevissimo termine) caratterizzi gran parte delle indie di oggi, snaturandone la natura originaria. Un esempio: ad inaugurare l’edizione 2009 del Meeting delle Etichette Indipendenti (MEI), il più importante evento nazionale del settore che si tiene ogni anno a Faenza, sono stato chiamati il Ministro (postfascista) della Gioventù Giorgia Meloni, il segretario della Cisl Bonanni e il direttore artistico del Festival di Sanremo. Più indipendenti di così! Il messaggio è: le indie fanno “ricerca & sviluppo” per un mercato che non è diverso dagli altri. E pensare che il patron della manifestazione era, anni fa, un bravo funzionario dell’Arci...

 
Spazi e circuiti

Già, l’Arci. Se gli spazi utilizzati dai musicisti più innovativi e sperimentatori, che vivono ai margini o fuori dal mercato, si riducono drammaticamente con la chiusura dei centri sociali, sopravvive in  Italia  il  solo circuito  dell’Arci, vecchia organizzazione utilizzata dal Pci per la sua politica di egemonia culturale. Lo scorso novembre è iniziato il processo per diffamazione a Max Stèfani, direttore di Mucchio Selvaggio (la più autorevole rivista italiana di musica leggera) il quale ha scritto un durissimo articolo intitolato “Arci-Mafia”. Se alcune critiche sono finite fuori bersaglio, sulle questioni di fondo sollevate da Stèfani c’è poco da ridire: l’Arci non ha più una politica culturale per la musica; l’insieme di locali che costituiscono il circuito si affiliano all’organizzazione per usufruire di vantaggi in termini fiscali e burocratici. Anche lì, la musica è ridotta a un ruolo di puro intrattenimento.

                               
Adorno versus Benjamin

A partire dagli anni ’60, le posizioni dei critici musicali hanno oscillato (semplificando) tra gli estremi rappresentati da due grandi teorici: per Theodor Adorno della scuola critica di Francoforte, l’essenza della musica leggera è il suo essere merce e ciò ne determina la funzione, che è la creazione di una coscienza soporifera. Il modo di produzione capitalistico dell’industria culturale e la tecnicizzazione della musica sono fattori di alienazione, la musica di massa è necessariamente involgarita e asservita al Potere. Per Walter Benjamin invece, la tecnologia della produzione di massa amplia i mezzi di espressione artistica e dunque le possibilità di intraprendere nuove battaglie culturali. L’arte diventa, da espressione individuale, un processo collettivo e dunque una forza progressista, aprendo nuove strade sul terreno del senso del prodotto culturale. Adorno non considerò che il consumatore da passivo è divenuto anche attivo perché non conobbe le subculture e le controculture giovanili. Il loro avvento sembrò rafforzare le tesi di Benjamin, sostenute da numerosi critici musicali. Ma oggi quegli stessi critici, organici all’industria culturale, evitano l’argomento perchè dovrebbero ammettere che Adorno sta “stravincendo”. Sulle riviste specializzate si allargano gli spazi dedicati a ristampe di vecchi album o alle storie di musicisti del passato.

 
La pirateria e internet

Secondo una classifica stilata delle riviste Rolling Stone e The Economist (3), i “grandi album” sono stati prodotti in gran numero dal 1964 al 1975, periodo seguito da un calo drastico fino all’82 ed infine da un andamento piatto. Per le case discografiche, le cause della crisi sono da ricercare invece nella “pirateria” dei download illegali tramite sistemi “peer to peer”, che operano attraverso uno scambio di file Mp3 tra utenti di un programma su internet (file sharing). L’offensiva sta ottenendo finalmente i suoi frutti specie nei paesi dove la connessione veloce (indispensabile per il download) ha già raggiunto una penetrazione considerata “matura” e gli stati, come quello francese, stanno deliberando di staccare la connessione ai “pirati”. Ma una ricerca della Fondazione Einaudi sul file sharing(4) è giunta a una conclusione più articolata: a parte gli studenti (per ovvi problemi economici), i consumatori di cultura usano questi metodi come forma di “esplorazione”, per poi acquistare un prodotto fisico dotato di contenuti aggiuntivi (libretti con testi, foto, informazioni sul gruppo e sulla registrazione, ecc.). Chi non è abitualmente consumatore di cultura non lo sarebbe comunque, specie se considera che la musica, per la sua qualità o per l’utilizzo superficiale, non valga la pena di essere pagata.

Internet apre indubbiamente nuovi scenari in rapido mutamento: alcuni osservatori ritengono finalmente possibile il ritorno al “magico” rapporto diretto tra artista e consumatore, ma vecchi e nuovi intermediari sembrano ben attrezzati e in grado di ostacolarlo. La partita è aperta, ma resta decisiva la presenza di una domanda che consideri la musica non solo un piacevole intrattenimento di sottofondo, ma qualcosa in grado dClassifica degli album più venduti in Italia -2008i generare sentimenti e di soddisfare bisogni autentici; e di tornare ad alimentare immaginari individuali e collettivi che appaiono assai atrofizzati.           

                                                                                                       

 (1) Dati e aneddoti sulla storia del rock fino agli anni ’80 sono tratti da D. Buxton, “Il rock: star-system e società dei consumi”, supplemento a “Il Mucchio Selvaggio”, dicembre 1987.

(2)Fonte: IFPI (federazione internazionale delle case discografiche) in IULM - Libera Università di Lingue e Comunicazione, “Economia della musica in Italia, Rapporto 2008”.

(3)The Economist, 30 ott. 2004

(4) Rintracciabile proprio sul sito internet della FIMI (l’organizzazione delle case discografiche italiane).

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