Draba Trio: Gipsy Manouche e Balcani, recensione di Eugen Galasso (n°159)
Concerto e CD
Il trio fiorentino (uno è di Prato, in verità), composto da Simone Solazzo (è lui, il pratese) alle chitarre e vocalist, dal violinista Michele Sarti e dal contrabbassista Marco Lorini, suona jazz manouche. Quel jazz melodico e “melodizzato” che proponeva il musicista belga, di origine sinti, Django Reinhardt (1910-1953), grande, geniale meteora che ha illuminato il panorama musicale mondiale, suonando il banjo (poi abbandonato, per un grave incidente alla mano) e soprattutto la chitarra da grandissimo musicista, da compositore e riarrangiatore, tanto da esibirsi persino con una star quale John Coltrane (1926-1967).
Autodidatta geniale, Reinhardt era capace di ricreare brani di altri (penso a “La mer” di Charles Trenet e al popolare “J’attendrai”) e di comporne di propri, rielaborando la tradizione gitana e altre musiche, sia dell’Europa orientale, sia della tradizione in cui era sostanzialmente cresciuto (Francia e Belgio).
Invece i musicisti citati hanno tutti una formazione decisa (il più “autodidatta”, se vogliamo, è proprio il fondatore Solazzo, ma anche lui per modo di dire, avendo frequentato corsi vari) e anche di Conservatorio, come il violinista Sarti, ma lo stile è proprio quello reinhardtiano, con la capacità di ridarlo, aggiungendo anche più brani balcanici, peraltro, senza minimamente “copiarlo” (sarebbe impossibile, in realtà).
Interessante anche la posizione sul palco, guardando al concerto: Solazzo è il più mosso-mobile, Sarti il più serio apparentemente (il violino, chiaro) ma anche in realtà scanzonato, con quella giacca impeccabile, ma poi con quei frenetici movimenti di violino, intendendo non solo i suoni prodotti e la loro velocità (Tartini e Paganini docent, nel “classico”) ma anche proprio le modalità di movimento dello strumento stesso; anche Lorini, fatalmente bloccato dal voluminoso contrabbasso, piazza alcune sorprese sonore ben lontane da quel “basso continuo” che sarebbe di mero accompagnamento.
Ecco allora che “Minor Swing”, “Limehouse Blues”, “J’attendrai”, ma in versione decisamente “altra”, “The Sheik of Araby” rivivono in questa versione nuova ma invero fedelissima all’originale, per non dire degli interventi canori di Solazzo, anch’essi decisamente riusciti. Very good, non c’è altro e nulla di più da aggiungere, per questa musica struggente quanto dinamica, “diabolica” ma non priva di raccoglimento e di interiorità, non solo nelle (quasi inesistenti) pause. Una musica certo inconsueta, nella città dell’Arno, soprattutto se suonata da Fiorentini, come si diceva, ma in realtà più che credibile, considerando la volontà cosmopolita di una città certo in crisi, ma che vuole disperatamente ritrovare un “ubi consistam” proiettato nel mondo, al di là del sempre valido (economicamente) turismo.
Ma, anche al di fuori dei confini medicei, accostarsi a questo tipo di musica può essere interessante e, come si dice spesso un po’ superficialmente, istruttivo. Sarà anche banale ripeterlo, ma non si ama un genere di musica che non si conosce o che si conosce poco, se non lo si ascolta: in particolare, nel caso specifico, c’è comunque il rischio di pensare che si ascolti “sempre la stessa musica”, quando invece le variazioni sul tema sono infinite, il rapporto tra musica scritta e improvvisazione è continuo, certo oggi con una consapevolezza tecnica che al-l’epoca di Reinhardt non solo non esisteva ma non era neppure immaginabile.