Fare musica popolare, di Roberto Picchi (n°113)
Roberto Picchi, musicista di cui abbiamo già più volte parlato su Cenerentola, ci ha inviato un breve scritto nel quale fa il punto sul suo rapporto con la tradizione popolare.
Chi fosse interessato a un approccio piuttosto diverso, ma fondato su di una analisi simile, può vedere la lunga recensione intitolata “A proposito di piccole patrie” contenuta nel numero 3 della nostra rivista, reperibile anche all’indirizzo web http://www.cenerentola.info/archivio/numero3/articoli_n.3/in_libreria.htm
Fare musica popolare oggi, da parte di chi non si sente di appartenere ad alcuna comunità, se non a quella generica della specie umana, acquista significati del tutto particolari.
Il musicista popolare che appartiene ad una comunità esprime l’identità culturale del suo gruppo. Accetta completamente la tradizione, in cui tutt’al più innesta la propria personale sensibilità. Della comunità condivide e rispetta le regole, per quanto limitanti la libertà individuale. Questa rinuncia viene compensata con la certezza di essere riconosciuto come il cantore dei valori del gruppo. A lui il gruppo affida la voce solista e il diritto di condurre le danze, variando gli schemi e i testi a suo piacimento, con la certezza di essere sempre seguito fedelmente.
Per chi è migrato, immerso in regole sconosciute ed estranee, fare musica popolare può significare la volontà di non perdere le proprie radici, i valori del villaggio, nel tentativo di evitare l’anonimato di chi non possiede più alcuna identità culturale. La perdita di identità è una logica conseguenza della globalizzazione. Il carattere tradizionalista e conservatore è insito in questa concezione del fare musica popolare. La globalizzazione è un fenomeno che porta necessariamente alla cancellazione dei dialetti e delle espressioni culturali locali, sostituendoli con una lingua universale e con i prodotti della grande industria culturale, gestita ovviamente da società multinazionali. Non si tratta di un fenomeno che incide solo sulla cultura, ma soprattutto sullo stile di vita, sui consumi, sullo sfruttamento delle risorse ambientali, in nome di una crescita che poco ha a che fare con la diffusione del benessere, quanto piuttosto con le esigenze economiche della produzione. In un contesto del genere fare musica popolare sembra assumere i contorni di un’operazione sostanzialmente reazionaria.
Ma esiste un altro modo di intendere il fare musica popolare.
Il musicista sradicato dal territorio d’origine, lontano dalla comunità rurale in cui è nato, cresce e sviluppa una sensibilità del tutto particolare, maturata nella solitudine dell’emarginazione, nell’impossibilità di un’integrazione completa con la nuova realtà urbana industrializzata in cui vive. Questa soggettività si confronta con i valori e le espressioni artistiche della tradizione, in un rapporto dialettico, fatto anche di amore e odio, di nostalgia e rifiuto, di rispetto e di insofferenza. In una situazione simile non ha senso pensare ad un recupero filologico del patrimonio popolare: questo sì avrebbe un carattere conservatore e reazionario. Il musicista popolare migrato, divenuto suo malgrado cittadino del mondo, sente il bisogno di misurare le distanze, la distanza tra sé e il mondo tradizionale, e la distanza tra il mondo tradizionale e i valori dominanti. Raffrontare se stessi ad una situazione arcaica acquista così un carattere di rifiuto dei valori dominanti, vissuti come impoverenti e falsi, ovvero come pseudo/valori. L’autenticità è vista altrove, nel passato che ci portiamo dentro, che non esiste più e non può di per sé essere contrapposto al presente, tuttavia lo sentiamo in grado di darci la forza per continuare a camminare nonostante tutto a testa alta.
C’è infine ancora un passaggio che il musicista popolare può decidersi a compiere: superare la limitatezza geografica del modello, acquisire consapevolezza che la situazione è comune anche ad altre aree culturali, che le differenze tra gli uomini, le razze e le latitudini sono più fittizie che reali, come ci hanno spinto a credere, per mandarci alla guerra. Ma le guerre hanno sempre ragioni e interessi inconfessabili. Con accurati strumenti analitici, il musicista popolare, che nel frattempo ha avuto modo di approfondire le conoscenze della sua arte, coglie le identità di cellule microstrutturali in musiche di popoli appartenenti a culture diverse. Scivolare da una cultura ad un’altra, viaggiare nello spazio e nel tempo, diventa così un consolatorio esercizio intellettuale: lo smoking e i tatuaggi dei Maori hanno la stessa funzione strutturale. Ora sa che ci sono molti paesi nel mondo in cui può recarsi e non sentirsi straniero, in cui può essere accolto come un vecchio amico finalmente ritrovato. Sa anche che suonare su tre corde tese su una cassa di legno, o su una pelle incorniciata, significa rifiutare lo strapotere della tecnologia, significa contrapporre il concetto di decrescita al fagocitante dio PIL, e mostrare quanto poco basti a far volare la “vera” musica.
Lentamente, molto lentamente, la solitudine della metropoli diventa più sopportabile, e la vita si colora di nuovi obiettivi, ben distanti dalla invasiva e perversa logica del mero profitto.