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Categoria: Cinema
Creato Venerdì, 01 Gennaio 2016

Il figlio di SaulIl figlio di Saul, recensione di Luca Baroncini (n°186)

di László Nemes

con Géza Röhrig, Levente Molnar, Urs Rechn, Todd Charmont

Ottobre 1944. Saul è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau e membro del Sonderkommando, unità speciale che raggruppa i prigionieri ebrei chiamati ad assistere i nazisti come addetti al funzionamento dei forni crematori e allo smaltimento dei resti umani. Un compito agghiacciante in un luogo in cui non c’è spazio per logica e buon senso e dove ogni minuto potrebbe essere l’ultimo.

In questo contesto privo di appigli razionali l’uomo riconosce tra i cadaveri da rimuovere quello di suo figlio. Da quel momento decide di adoperarsi in ogni modo e con tutte le forze per dargli una degna sepoltura secondo il rito ebraico.

Al di là del racconto, essenziale ma con coordinate precise ben scansionate nella sceneggiatura, ciò che lascia senza parole è la messa in scena adottata dal giovane regista ungherese László Nemes (classe 1977). Quello a cui sottopone lo spettatore, infatti, è uno sconvolgente, a tratti estenuante, viaggio nei meandri della paura e dell’abbruttimento umano. La macchina da presa tallona il protagonista, quasi sempre in primo piano o di spalle, e non lo molla per tutto il film. È lui che noi vediamo sempre, il resto lo intuiamo. La scelta, piuttosto ardita, non si traduce in un mero virtuosismo, ma assume un chiaro significato: comunicare tutto il disagio, la precarietà, l’atrocità, la ferocia, di un mondo divenuto inferno, evitando la spettacolarizzazione del dolore ma creando una sorta di transfert. Sembra proprio di vivere l’esperienza di un campo di concentramento in prima persona e nonostante la violenza sia praticamente sempre fuori campo, ai margini dell’inquadratura, mai mostrata direttamente, se ne percepisce sempre l’impatto dirompente a causa della concitazione, delle grida, dei rumori di sottofondo. Tutto ciò assume la forma, controllatissima, di un potente pugno nello stomaco, perché il film non dà tregua. Si finisce per assumere il punto di vista del protagonista, ancorarsi come lui a un pensiero fisso che diventa un’ossessione per salvarsi dall’orrore in cui si è immersi.

La missione di Saul è finalizzata a non perdere l’umanità, dare alle cose la giusta priorità, ritrovare la propria dignità in contrapposizione alla lucida follia che lo circonda. Si potrebbe considerare come la pietra tombale sulle rappresentazioni di finzione incentrate sull’Olocausto, una sorta di film definitivo.

Un’opera prima indimenticabile a cui non si smette di pensare anche a giorni di distanza. Cinema esperienziale ai limiti del sopportabile, mai gratuito e con un grande rigore morale dove la forma riflette il contenuto (a partire dal formato 4:3 che ne limita ogni spettacolarità).

Presentato in concorso al festival di Cannes si è aggiudicato il Grand Prix speciale della Giuria e il Premio Fipresci assegnato dalla critica internazionale e ha buone probabilità di vincere l’Oscar come Migliore Film Straniero.