Cinema e cibo, di Luca Baroncini (n°258)
“Mangiare è uno dei quattro scopi della vita… quali siano gli altri tre, nessuno lo ha mai saputo”.
Lo dice un proverbio cinese e in effetti la passione per il cibo non conosce crisi ma, anzi, negli ultimi anni, covid permettendo, è aumentata a livello esponenziale. Nel post pandemia gli unici locali che sono sempre pieni sono i ristoranti. Soprattutto quelli di qualità, perché il cliente sembra essere sempre più esigente. Ad affinare il gusto, più del palato, sono il sistema delle recensioni, spada di Damocle di ogni ristoratore, e i vari format televisivi, dai reality show alle docuserie, che abbinano il tema gastronomico al lato umano, attraverso competizioni accesissime a suon di lacrime e manicaretti prelibati.
Il cinema, che della vita è il riflesso, da tempo si occupa del fenomeno. Nella nuova stagione sono già quattro i titoli che nei modi più diversi trattano il cibo come parte integrante del racconto. Si è cominciato a fine settembre con la commedia svedese di Annika Appelin Tuesday Club - il talismano della felicità, in cui una donna in crisi coniugale decide di dedicare più tempo a se stessa e alle proprie passioni e riscopre i piaceri della vita partecipando a un corso di cucina. Una commediola all’acqua di rose apprezzabile solo perché pone al centro del racconto protagonisti maturi senza inseguire la gioventù, ma davvero esornativa nell’impasto insipido di luoghi comuni e svolte improbabili.
Va molto meglio con Boiling Point – il disastro è servito, di Philip Barantini, arrivato il 10 novembre. Questa volta siamo alla vigilia di Natale in un ristorante di tendenza dell’east end londinese, una serata in cui pare che tutto debba andare a rotoli per lo chef protagonista. Ai problemi familiari si sommano infatti le beghe derivanti da ispettori sanitari, critici gastronomici, influencer, colleghi di lavoro e clienti allergici, arroganti e maleducati. Il “punto di ebollizione” è quello a cui lo chef giungerà dopo 92 minuti di serrato piano sequenza (un’unica ripresa senza stacchi di montaggio). Un’opera davvero interessante nel modo in cui utilizza la tecnica per alzare progressivamente la tensione e mostrare il drammatico dietro le quinte di una serata al ristorante, come tante per i clienti, decisiva per chi quei clienti li deve accontentare. Più efficace nella coralità che quando si sofferma sul dramma del singolo, il film si basa anche sulla solida interpretazione di un più che mai stropicciato Stephen Graham.
Con l’americano The Menu di Mark Mylod, arrivato il 17 novembre, il tema culinario abbraccia l’horror. Siamo in uno stiloso ristorante su un’isola deserta, dove uno chef rinomato propone una cucina concettuale per pochi ospiti selezionati, disposti a tutto (la cena costa 1.250 euro) pur di vivere una esperienza esclusiva. Mal gliene incoglierà, perché tra una portata raffinata e l’altra avrà modo di inserirsi un ingrediente non previsto e inaspettatamente contagioso: la follia. Premesse interessanti, sviluppo così così. A mancare è un ingrediente fondamentale: la sospensione di incredulità.
Conclude l’abbuffata cinematografica il francese Sì chef! - La Brigade, di Louis Julien-Petit, in uscita il 7 dicembre, in cui la cucina diventa il luogo delle seconde possibilità. Protagonista è la disillusa Cathy, che sogna un ristorante stellato tutto suo ma si ritrova a lavorare nella mensa di un centro di accoglienza per giovani migranti. Si tratta di un “feel-good movie”, cioè uno di quei film che fanno stare bene e riconciliano, anche se solo per un paio d’ore, con il mondo. A contribuire al risultato due elementi: la perfetta caratterizzazione di Audrey Lamy, che cavalca con grande credibilità il cliché della “ruvida dal cuore d’oro”, e una scrittura equilibrata, in grado di non rendere stucchevole l’inevitabile lieto fine. Un film che non può mancare nel menù natalizio.