Strange World – Un mondo misterioso, recensione di Luca Baroncini (n°260)
di Don Hall e Qui Nguyen
Il cinema, anche quello di pura evasione, può essere importante spunto di riflessione sulla contemporaneità. È il caso del film di animazione di Don Hall e Qui Nguyen. Si tratta infatti del primo Classico Disney con un personaggio dichiaratamente gay e tutto il progetto è calibrato al millesimo per farsi manifesto di inclusione: un nucleo familiare multietnico, figure femminili centrali e in ruoli di potere, una fluidità non solo allusiva ma parte integrante del racconto che supera di slancio la fase del coming out per inserirsi senza traumi nel vivere quotidiano.
Viene da gridare “Evviva!”, perché finalmente il racconto cinematografico generalista si allinea a quello che la vita ha già ampiamente dimostrato ed è bello pensare che in qualunque parte del mondo una bambina non avrà come modello la solita bellissima che seduce gli uomini con il suo charme e un bambino troverà un personaggio gay che vive senza problema alcuno la sua affettività.
Se però le caratterizzazioni funzionano, rendendo ideale il mondo in cui si muovono i personaggi, a funzionare meno è il livello primario, quello della storia e del senso di meraviglia a cui ambisce. Apprezzabile che non ci sia il solito cattivone ghignante da combattere a suon di sganassoni, anzi, su questo aspetto si ironizza parecchio nel conflitto generazionale tra genitori, figli e nipoti alla base del racconto, ma motivazioni e consapevolezze dei personaggi non sono sempre chiarissimi nel loro evolversi. Ogni snodo è infatti calibratissimo in fase di scrittura, ma inciampa in una scansione del racconto eccessivamente stratificata e alla fine poco appassionante. Neanche l’afflato ecologista riesce davvero a conquistare e a divenire incanto, come invece accade nelle opere di Hayao Miyazaki a cui ogni tanto lo “strange world” sembra ammiccare.
Ciò nonostante il film scivola piacevolmente, è tecnicamente ineccepibile e dispiace constatare che sia citato unicamente come sonoro flop commerciale (costato circa 180 milioni di dollari, ne ha incassati a livello mondiale solo 70,4). Una notizia che i media hanno riportato con enfasi senza interrogarsi sulle possibili cause che non sono prettamente legate al film in sé, ma soprattutto alla politica poco lungimirante della major americana: perché andare in sala quando dopo poco più di un mese, a volte meno, il film è disponibile in streaming? Una strategia volta purtroppo a valorizzare solo la piattaforma Disney+, dimenticando che solo partendo dal cinema, e prevedendo finestre (cioè intervalli di tempo) adeguate tra una forma di sfruttamento e l’altra, un film acquisisce valore. Altrimenti viene bruciato in un attimo e non si fa in tempo a metterlo a fuoco che è già nel dimenticatoio.
Per fortuna i disastrosi risultati economici conseguiti dalla Disney nel quarto trimestre fiscale hanno portato a un cambio di rotta, determinando il licenziamento dell’amministratore delegato Bob Chapek e il ritorno del precedente Bob Iger. Si spera quindi in un futuro all’insegna della sala cinematografica, in cui inclusività e racconto procedano più in armonia.
Stroncare però frettolosamente il film senza riconoscerne il valore, non solo cinematografico ma anche sociale, sarebbe miope e ingiusto.