Air – La storia del grande salto, recensione di Luca Baroncini (n°264)
di Ben Affleck con Matt Damon, Ben Affleck, Jason Bateman, Viola Davis
Ben Affleck si conferma un abile narratore, capace di raccontare in modo appassionante una storia per immagini. Una storia che poteva essere noiosissima. È infatti definito un film sportivo ma lo sport, pur respirandosi di continuo, non lo si vede praticamente mai; e nemmeno il campione di basket intorno a cui tutto ruota, il mitico Michael Jordan, sempre di spalle, sfocato o fuori dall’inquadratura. Anzi, al centro del racconto ci sono proprio tutte quelle parti accordi commerciali, strategie di marketing, riunioni di ufficio - che generalmente vengono tralasciate perché difficilmente filmabili. Invece Ben Affleck non solo le mette al centro della sua visione, ma riesce anche a renderle interessanti.
Si racconta di come la Nike riuscì a ingaggiare Michael Jordan come testimonial per le sue scarpe strappandolo a sorpresa alle concorrenti Adidas e Converse. Una svolta che cambiò per sempre l’approccio alle sponsorizzazioni nell’industria moderna. L’insieme funziona perché poggia sul lato umano dei personaggi che sono ben caratterizzati e superbamente interpretati e a cui gradualmente ci si affeziona. La sceneggiatura, pescata tra quelle più apprezzate ma ancora non prodotte del 2021 (la cosiddetta “black list”), è oliatissima e pone le basi per i molti confronti tra i personaggi con la giusta progressione riuscendo a raccontare non solo una storia, ma anche un’epoca.
Gli anni ’80 sono più che mai protagonisti trasversali attraverso le musiche, i vestiti, le auto, i riferimenti pop. Anche la retorica della conquista della vetta grazie a talento e determinazione, inno di un decennio in cui l’affermazione personale sembrava alla portata di tutti, bastava crederci, scivola piacevolmente e nelle fasi finali accende l’entusiasmo.
E allora perché nell’euforia che accompagna la fine del film qualcosa non torna? Che sia perché l’unico metro per misurare il valore delle cose è, come quasi sempre nel cinema americano, solo ed esclusivamente il denaro? Si esce dal cinema, anche se sull’onda del buonumore per avere visto un bel film non ci si pensa, con una vocina che ripete come un mantra “se davvero vali qualcosa devi guadagnare tantissimo”, “se davvero vali qualcosa devi essere ricco”, “se non sei ricco non vali nulla”. Una logica che abbiamo completamente assimilata e fatta nostra in cui il valore di una persona non è dato da ciò che è, ma da ciò che ha. Un modo di pensare frustrante perché in un sistema in cui uno su mille ce la fa relega immediatamente tutti gli altri all’insoddisfazione e, soprattutto, perde per strada tutte quelle cose che non portano soldi ma gratificazione personale.
A tal riguardo, ed esco a questo punto dalla recensione, mi viene in mente un dialogo a cui ho assistito qualche tempo fa tra due amici. Uno raccontava le cose belle che stava facendo, piccoli passi nelle sue passioni cercando di barcamenarsi tra quotidiano e sogni. L’altro dopo averlo ascoltato gli rispose dicendo “Ma se sei così bravo, perché sei ancora qui?” intendendo, con “ancora qui”, a questo livello. Non conta quindi quello che ti piace e ti fa stare bene riesci a fare, ma quanto di tutto ciò riesci a monetizzare, “a trasformare in cash” direbbe il mio amico. Il denaro, quindi, come unico metro di paragone per dare concretezza ai sogni.
Non che non sia importante, ma renderlo il punto di arrivo, l’unico possibile, di talento e determinazione, è un po’ riduttivo. “Air” non si sottrae a questa narrazione retorica, e lo fa molto bene dal punto di vista cinematografico, lasciando però più di un dubbio su ciò che veicola.