Animali selvatici, recensione di Luca Baroncini (n°265)
di Cristian Mungiu
con Judith State, Alin Panc, Marin Grigore, András Hatházi
Il titolo originale, “RMN”, modificato per aiutare il percorso del film nelle sale, significa “risonanza magnetica”. La tecnica diagnostica compare brevemente nel racconto quando il padre del protagonista cerca di capire le cause di una narcolessia che gli rende difficoltoso il lavoro di pastore, ma è una chiara metafora di ciò che l’opera del regista romeno Cristian Mungiu vuole fare: un esame approfondito della situazione contemporanea del suo paese, estendibile a tutto il mondo occidentale.
Il film è ambientato in un piccolo paese della Transilvania, crogiuolo di etnie in precario equilibrio. Oltre ai romeni ci sono magiari, tedeschi, rom, ogni microcosmo con i suoi usi e costumi che cerca di proteggere e perpetuare; molte lingue si intrecciano, oltre al romeno, anche l’ungherese, il tedesco, il francese e l’inglese (questa volta più che mai la versione in lingua originale sarebbe importante). Dietro la quiete apparente si cela però una polveriera pronta a esplodere. La miccia è data dall’arrivo di alcuni lavoratori dallo Sri Lanka che vengono assunti da un panificio industriale che deve trovare rapidamente cinque nuovi dipendenti per poter beneficiare degli aiuti europei e fatica a trovarli a causa dei salari proposti al minimo sindacale. Il palesarsi di nuove etnie fa sorgere nella comunità un grande disappunto e la rabbia prende forme diverse, improntate soprattutto a xenofobia e razzismo. La paura del diverso, di qualunque cosa possa minare le presunte certezze del presente, determina reazioni accese, anche aggressive. Quella che il racconto mette in scena è una chiara metafora della contemporaneità in cui chiunque può diventare, a seconda di dove si collochi geograficamente, lo zingaro di qualcun altro.
Ma non è solo di questo che parla il film di Mungiu, storia corale che interseca ragioni antropologiche e politiche con il sentire personale di vari personaggi permeandolo di cinema. C’è una sequenza che da sola vale il prezzo del biglietto, quella dell’assemblea cittadina in cui, attraverso un piano sequenza (quindi senza stacchi di montaggio) di ben diciassette minuti, si esplicitano i differenti punti di vista dei partecipanti.
Cinema allo stato puro che combina con maestria le ragioni di ognuno su tematiche brucianti e fa emergere chiaramente pregiudizi, ipocrisie, timori e conflitti sociali. L’allegoria dell’occidente mostra la fragilità dell’integrazione tra culture e credo diversi attraverso uno stile rigoroso, simbolismi (gli animali selvatici del titolo italiano) e digressioni. L’insieme rischia di risultare dispersivo, a volte depistante, ma la complessità dello sguardo è anche la ricchezza del film che non si accontenta di spiegare o suffragare una tesi, ma insinua prima di tutto dubbi e interrogativi.