Festival di Venezia, recensione di Luca Baroncini (n°266)
Un festival internazionale è una finestra sul mondo e consente di captare un sentire contemporaneo. La prima cosa che salta agli occhi è che quasi nessuno dei film visti in una settimana di festival, pur essendo stati concepiti e in parte girati in tempi di covid, reca tracce della pandemia. Solo in un film di una sezione collaterale, Backstage di Afef Ben Mahmoud, una compagnia di danza si dichiara stanca dopo il blocco causato dal covid, ma per il resto la sensazione è che i due anni terribili di immobilità ed emergenza sanitaria si vogliano dimenticare in fretta, quasi cancellare dalla memoria.
Per il resto, il festival evidenzia sempre più il tramonto della famiglia tradizionale: più che mai disfunzionale nel bel debutto di Micaela Ramazzotti (Felicità, dal 21 settembre in sala), con confini di genere superati senza grandi patemi (L’ordine delle cose di Liliana Cavani, già in distribuzione), oltre ogni livello di tossicità, con la rivisitazione in chiave horror della figura del dittatore cileno Augusto Pinochet (El Conde, dal 15 settembre su Netflix), aperta alla sperimentazione (Willem Dafoe, novello Frankenstein, dona nuova vita a una suicida innestandole il cervello del figlio che portava in grembo nel folgorante Poor Things di Yorgos Lanthimos, meritato Leone d’Oro) e senza che una sessualità poco convenzionale diventi un limite all’unione di coppia (Maestro di Bradley Cooper).
Il tema sociale e politico caldo è quello dei fenomeni migratori, affrontato da differenti punti di vista, tra Bielorussia e Polonia in Green Border (Premio Speciale della Giuria), della regista polacca Agnieszka Holland, e dal Senegal all’Italia nell’intenso Io capitano di Matteo Garrone (Leone d’Argento per la migliore regia e premio Mastroianni al giovane protagonista Seydou Sarr).
L’altra novità è stata la minore presenza di divi americani rispetto al solito, a causa del perdurare dello sciopero di sceneggiatori e attori. Dovevano arrivare Bradley Cooper, Emma Stone, Zendaya, Carey Mulligan, Michael Fassbender e Penélope Cruz. Non sono venuti, ma i film da loro interpretati invece si, e alla fine è andata bene lo stesso.
Stando alle consuete dichiarazioni di fine festival, rispetto al 2022 gli accredi tati sono aumentati del 9% e i biglietti venduti addirittura del 14%, con un fermento visibile a partire dalla folla intorno al red carpet, già in posizione strategica a partire dalle prime luci dell’alba.
Non sono poi mancate le polemiche. La più rumorosa a livello mediatico è stata quella innescata da Pierfrancesco Favino sull’utilizzo di attori stranieri per ruoli di personaggi italiani, le cui dichiarazioni sono state estrapolate, decontestualizzate e manipolate dai media a più non posso. Le sue parole sono state “per me un attore è libero di pensare di essere una giraffa belga, quello è il nostro mestiere, noi esistiamo per essere ciò che non siamo, però se le regole del gioco comuni sono queste” (n.d.r. che un personaggio straniero sia interpretato da un attore di quella nazionalità), “a quelle regole comuni dobbiamo partecipare anche noi”. E cita il caso di Sabrina Impacciatore che per la serie americana The White Lotus, per il suo ruolo di Valentina, la direttrice di un albergo di lusso a Taormina, è stata candidata agli Emmy.
La strada è quella secondo Favino, mentre vedere Enzo Ferrari interpretato da Adam Driver e sua moglie da Penelope Cruz, nella mega produzione americana Ferrari diretta da Michael Mann, sembra andare in tutt’altra direzione. Del resto, cosa direbbero gli americani, che “per venire qui”, incalza l’attore romano, “hanno un risparmio del 45% di tasse”, se ad interpretare Abramo Lincoln fosse un attore italiano? Lo accoglierebbero con tutti gli onori facendolo partecipare a un festival, magari candidandolo agli Oscar? C’è da ragionarci su, non trovate?