Quattro giorni alla Berlinale, di Luca Baroncini (n° 271)
Berlino non si ferma mai, ogni anno nuovi locali, negozi diversi e cantieri in ogni angolo. Il festival del cinema riflette la stessa inquietudine. Si tratta infatti dell’ultima edizione curata da Carlo Chatrian e Mariëtte Rissenbeek, apprezzati dai frequentatori del festival, meno dalle istituzioni, per il rigore scaccia sponsor della loro visione.
A prendere il loro posto sarà dal prossimo anno la statunitense Tricia Tuttle, pare scelta per la sua grande abilità manageriale, ha infatti reso il London Film Festival un evento dal forte impatto mediatico. Ed è proprio questo che manca alla Berlinale.
Del resto non è facile per un festival internazionale, che ha sempre fatto delle tematiche sociali e politiche il suo punto di forza, attirare l’attenzione, non tanto del pubblico (a Berlino le sale sono sempre piene), quanto dei clic che piacciono tanto agli sponsor e che hanno trasformato le notizie dai festival in un elenco di personaggi collaterali in abiti firmati.
Se Venezia e Cannes hanno trovato un compromesso tra impegno e opulenza, o perlomeno ci provano, Berlino è sempre stata più radicale e meno diplomatica.
Tra le tante polemiche che hanno accompagnato il festival, quella che ha fatto più rumore è stata il disinvito ai membri del partito di ultradestra alla cerimonia di apertura, dopo l’iniziale invito per motivi istituzionali, decisione derivante anche da una lettera firmata da oltre duecento operatori del settore che si sentivano oltraggiati dalla loro partecipazione. Che il mondo non sia messo tanto bene e che il festival ne sia un riflesso lo dimostra anche la mancata presenza di una coppia di registi e scrittori iraniani, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, impossibilitati dalle autorità di Teheran ad accompagnare il loro film, My Favourit Cake, tra l’altro tra i più applauditi. Non sono riuscito a vederlo, ma racconta la storia di una donna anziana che cerca di rifarsi una vita dopo la morte del marito e il trasferimento dei figli fuori dal paese. L’assenza dei due registi è stata accompagnata da un documento letto in conferenza stampa: “Abbiamo deciso di ignorare tutte le linee restrittive e di accettare le conseguenze della nostra scelta di mostrare la situazione reale delle donne iraniane”.
Il programma, pur ridotto rispetto alle passate edizioni, è stato ancora una volta molto ricco e la caratteristica principale del festival, quella di avere il cuore pulsante intorno al Berlinale Palast, a due passi da Potsdamer Platz, ma di essere dislocato in vari cinema sparsi in tutta la città, è stata pienamente rispettata, con spostamenti non sempre facili da gestire. Quanto ai film visti e disseminati nelle varie sezioni (oltre al Concorso è Panorama a riservare, come sempre, le maggiori soprese), il filo rosso che ne accomuna la maggior parte sembra essere quello dei mondi paralleli, vicinissimi eppure distanti. Succede in A Different Man di Aaron Schimberg, dove realtà e sua rappresentazione si intrecciano nel complesso racconto di un attore affetto da neurofibromatosi, quindi dal viso deforme, che decide di provare una cura miracolosa che lo trasforma in un bello da pubblicità, salvo poi andare in crisi quando scopre che la ragazza che ama, e da cui pensava di essere ignorato, ha scritto una pièce teatrale con protagonista proprio un uomo affetto da neurofibromatosi; ma anche in Another End di Piero Messina, progetto dalle ambizioni internazionali dove, nella storia di un uomo che accetta di rivedere per l’ultima volta la moglie morta in un incidente automobilistico nel corpo di un’altra donna che funge da contenitore temporaneo di ricordi, a incontrarsi sono il mondo dei vivi e quello dei morti. Ma accade anche nel francese Pendant ce temps sur terre di Jérémy Clapin, in un viaggio tutto interiore tra cielo, dove è scomparso l’astronauta Franck, e terra, dove la sorella Elsa continua a cercarlo seguendo una voce presumibilmente aliena che le spiega come farlo; e pure il cinese Brief History of a Family, opera di debutto di Lin Jianjie, fa incontrare classi sociali differenti attraverso un ragazzo talentuoso e povero che si insinua gradualmente in una famiglia benestante esibendo tutte le qualità che il figlio unico della coppia protagonista non ha.
Da non perdere, infine, per l’impatto visivo e per le domande che pone, il documentario Architecton di Victor Kossakovsky. Attraverso immagini potenti, anche se non sempre decifrabili, ci mostra la deriva dell’architettura contemporanea, tutta improntata all’utilizzo del cemento che il regista, coadiuvato dall’architetto Michele De Lucchi, identifica come il male assoluto: dura poco, massimo cinquant’anni, e produce opere esteticamente brutte. Tutto porta poi a una domanda: ma se gli architetti sono in grado di fare cose bellissime, come mai costruiscono così tante brutture?
Il regista russo, in un’animata conferenza stampa, ricorda infine la grande responsabilità di chi progetta, perché “gestendo gli spazi decide anche i comportamenti delle persone che quegli spazi li abiteranno”. C’è da pensarci su, vero?
E quando un festival pone interrogativi, induce a riflettere, fa scoprire cose nuove e pone l’attenzione sui nervi scoperti della contemporaneità, significa che sta facendo il suo dovere.