American Fiction, recensione di Luca Baroncini (n°272)
di Cord Jefferson
con Jeffrey Wright, Skyler Wright, John Ales, Patrick Fischler
Che film interessante la opera prima di Cord Jefferson, approdato alla regia dopo essersi affermato come giornalista e sceneggiatore televisivo.
Provoca infatti una sorta di corto circuito perché non si limita a portare avanti una tesi, ma sceglie la complessità. La chiave di lettura è nel jazz della colonna sonora che non porta in un’unica direzione, ma va un po’ dove gli pare. Proprio come la vita, che ci si sforza di incasellare anche quando si cerca di affrancarsi da etichette e stereotipi
È quello che accade al protagonista, un professore e scrittore afroamericano che è stanco di vendere poco perché le sue opere non sono ritenute “abbastanza nere”. Il mercato pare infatti richiedere una unica versione delle comunità nere, quella all’insegna del vittimismo, tutta slang di strada, padri assenti, madri disperate, rap, crack, poliziotti bianchi razzisti.
Se ci pensiamo, molto cinema e molta informazione hanno contribuito a estremizzare la cultura “woke”, termine diventato incandescente e utilizzato meno per il suo significato e più in senso dispregiativo. Letteralmente “woke” vuol dire “stare svegli”, quindi essere attenti alle ingiustizie sociali e politiche, ma il più delle volte lo sentiamo nominare quando si parla della rigidità di una ideologia che critica tutto ciò che non viene ritenuto sufficientemente inclusivo.
Il film affronta la questione di petto perché il protagonista, appartenente a una famiglia della media borghesia, non si sente affatto rappresentato dall’immaginario “black” imperante e non sopporta che i suoi libri nelle biblioteche non rientrino tra i libri “storici” ma vengano classificati tra gli “studi afroamericani”, come se la tutela di una diversità partita nel disequilibrio avesse sempre e solo una faccia della medaglia, quella della vittima. Un’etichetta che è diventata una gabbia.
Il problema è reale e tocca un nervo scoperto della contemporaneità, da una parte tutela e attenzione a diritti sacrosanti, dall’altra un perbenismo di fondo che attraverso una pornografia della miseria placa un senso di colpa che cela comunque un senso di superiorità. Tra l’altro con l’applicazione di regole di supposta inclusività in modo rigido e poco aperto al dialogo che spingono molti a non mettersi minimamente in discussione e a continuare a pensare come hanno sempre fatto.
Ma torniamo al film. Il protagonista, in preda alla delusione per l’ennesimo rifiuto editoriale, scrive di getto un romanzo che ritiene spazzatura, pieno dei più triti cliché sui neri, lo presenta sotto pseudonimo e viene accolto con grande entusiasmo. Il titolo dell’opera passa da “My Pafology”, come da slang nero, al senza filtri “Fuck” e diventa un “caso” in testa alle classifiche di vendita.
Il corto circuito di cui parlavo a inizio recensione deriva dal fatto che tutte le volte che il film mette in scena un confronto su queste tematiche è appassionante, ricco di spunti, lo si vorrebbe mettere in pausa e tornare indietro tanto i confronti sono pungenti e stimolanti, mentre quando rimpolpa la tesi con la storia del protagonista e della sua famiglia perde smalto e finisce per apparire distante, la solita storia a mezze tinte e poca verve di una famiglia non perfettamente centrata con i suoi pieni e i suoi vuoti, di cui però finisce per importarci poco.
Che sia perché la borghesia nera uscendo dai cliché dei neri e appropriandosi di quelli dei bianchi (famiglia disfunzionale, fratello omosessuale, madre con Alzheimer) non ci interessa?
Che sia un effetto voluto quello di farci ragionare sugli stereotipi di rappresentazione dei personaggi nel passaggio da borghese bianco a borghese nero?
Viene da pensarlo, ma non credo, il film pare soprattutto in maggiore difficoltà nel far coesistere un tema bello e contemporaneo con personaggi, oltre al protagonista, non sempre altrettanto brillanti.
In ogni caso, un film specchio dei nostri tempi confusi che offre preziose opportunità di confronto e riflessione.
Ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale.