Baby Reindeer, recensione di Luca Baroncini (n°274)
miniserie televisiva
(disponibile su Netflix)
Ci sono sensibilità che si riconoscono dalle ferite che hanno nell’animo. È quello che accade quando Donny, barista e aspirante cabarettista (perché bisogna dire per forza stand-up comedian?), offre una tazza di tè a Martha, una cliente turbata che non ha i soldi per pagare.
Mal gliene incoglie perché lei è una stalker e comincia a perseguitarlo. Lui è infastidito dalle continue e assillanti pressioni che riceve, almeno in parte, perché inizia un rapporto ambivalente dalle radici profonde attraverso cui finisce per alimentare, o comunque non stoppare, il fastidio. Quell’improvvisa urgenza nei suoi confronti si fa largo nel suo dolore, in qualche modo anestetizzandolo.
Un quadro psicologico molto interessante quello che si delinea, perché sulla razionalità prendono il sopravvento altre variabili che traggono origine da un passato irrisolto. A rendere sempre più coinvolgente il torbido rapporto che si instaura tra i due è probabilmente il fatto che il protagonista dal volto scavato e dal carattere remissivo, l’attore scozzese Richard Gadd, è anche l’ideatore della miniserie, tratta da una sua pièce, ma soprattutto il fatto che ciò che racconta derivi da un vissuto personale. Insomma, la miniserie è più che mai tratta da una storia vera, con il valore aggiunto che chi l’ha pensata e interpretata è proprio chi quelle ferite esibite le ha davvero subite. Quanto di più catartico per il protagonista, che ha così modo di esorcizzare i propri fantasmi, ma anche universale per la sua capacità di parlare con immediatezza a tutti, senza sconti, con la forza della vita e delle sue storture in primo piano sapientemente rielaborate.
Lo stratagemma adottato della voce fuori campo per spiegare stati d’animo e non detti non è dei più originali, ma centra lo scopo di arrivare direttamente e senza fraintendimenti a tutti. Da prodotto di nicchia è divenuto in poco tempo un vero e proprio fenomeno virale. A stuzzicare la curiosità probabilmente è anche la difficoltà di incasellarlo in un genere: è un thriller ma anche un dramma, ha un piglio quasi documentaristico nella brutalità mostrata ma i toni sono il più delle volte da commedia.
Insomma, sfugge all’algoritmo che tutto incasella indirizzando, ahimé, i nostri gusti. C’è inoltre una certa leggerezza, nonostante la grevità aleggi costantemente, e c’è attenzione per tutti i personaggi, anche quelli secondari (il padre del protagonista si vede pochissimo ma si fissa nella memoria). Inoltre è inclusivo senza farne una bandiera; tanti aspetti che concorrono a renderlo particolarmente interessante.
Il titolo significa “piccola renna” ed è il nomignolo con cui il protagonista viene chiamato dalla sua stalker.