Festival di Venezia: il giro del mondo in ventuno film, di Luca Baroncini (n°276)
Il Festival di Venezia è una ghiotta occasione per fare il punto della situazione sul presente attraverso il cinema, che della contemporaneità è tramite ed espressione.
In un’edizione ricca di star e glamour, ma senza colpi di fulmine cinematografici, i temi più sondati sono stati la guerra, in tutte le sue forme, le dinamiche familiari, in ogni possibile declinazione, i rapporti affettivi, spesso sondati nelle mancate corrispondenze, e le derive neonaziste, sempre più diffuse e preoccupanti.
Ho avuto il privilegio di poter vedere tutti i ventuno film in concorso, la maggior parte dei quali arriverà al cinema nel corso della stagione (dove noto, è indicata la data di uscita); avremo quindi modo di tornarci sopra più approfonditamente. Intanto, ecco un piccolo promemoria, in ordine sparso, per annotarsi quelli che incuriosiscono di più:
La stanza accanto di Pedro Almodóvar. Al suo primo film in lingua inglese il maestro spagnolo, affrontando di petto il tema dell’eutanasia con due grandi star come Julianne Moore e Tilda Swinton, incanta gli occhi ma non scalda il cuore perché non trova l’empatia. Ha vinto il massimo riconoscimento, il Leone d’Oro. Al cinema dal 5 dicembre 2024.
Campo di battaglia di Gianni Amelio. Una storia toccante ambientata verso la fine della seconda guerra mondiale che contrappone due diverse visioni della guerra e della vita, una idealista e l’altra umana, con molti rimandi al presente. Al cinema dal 5 settembre 2024.
Leurs enfants après eux di Ludovic Boukherma e Zoran Boukherma. Viscerale percorso di formazione ambientato nella provincia francese negli anni ’90. Il giovane Paul Kircher ha vinto il Premio Marcello Mastroianni dedicato agli attori emergenti.
The Brutalist di Brady Corbet. Opera monumentale, anche nella durata, che racconta ascesa e declino di un architetto ungherese emigrato negli Stati Uniti nel 1947. Troverà l’America, ma finirà anche per perderla. Ha vinto il Leone d'argento - Premio speciale per la regia.
Jouer avec le feu di Delphine Coulin e Muriel Coulin. Un padre, Vincent Lindon, vincitore della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, e due figli diversissimi tra loro: uno diligente e responsabile, l’altro attratto da derive neonaziste. Materia incendiaria un po’ forzatamente depotenziata e a tratti didascalica.
Vermiglio di Maura Delpero. Tra “L’albero degli zoccoli” e “Storia di ragazze e di ragazzi”, il succedersi delle stagioni e della vita in una piccola comunità tra i monti del Trentino nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale. Ha vinto il Leone d’argento - Gran premio della giuria. Al cinema dal 19 settembre 2024.
Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. La latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro e il tentativo di snidarlo dal suo nascondiglio attraverso il coinvolgimento del-l’ex politico Catello, da poco uscito di prigione. Una storia vera e drammatica trattata puntando al piacevole intrattenimento. Con due bravi attori come Toni Servillo ed Elio Germano. Al cinema dal 10 ottobre 2024.
Queer di Luca Guadagnino. Un romanzo intraducibile (William Burroughs), un attore in fuga dal ruolo di James Bond che rischia(va) di ingabbiarlo a vita (Daniel Craig) e un regista in cerca di definitiva consacrazione (Luca Guadagnino). Inevitabilmente divisivo. Io sono tra quelli a cui è girato intorno.
Kjaerlighet/ Love di Dag Johan Haugerud. Si parla di sesso, lo si fa, ma anche di amore, affetti, malattia, tempo che passa, insomma, vita. Dalla Norvegia la seconda parte di una trilogia con personaggi che vorresti avere come amici per fronteggiare la quotidianità. Una piacevole sorpresa.
April di Dea Kulumbegashvili. Dalla Georgia un film che gode di un grande rigore nella messa in scena, con studiatissime ed efficaci inquadrature composte ad arte per spiazzare, ma il piglio respingente pare essere un po’ gratuito nel volere a tutti i costi disturbare. Ha vinto il Premio speciale della giuria.
The Order di Justin Kurzel. Onesto thriller politico con Jude Law, dove centrali sono le derive neonaziste di un gruppo terroristico che negli anni ’80 stava organizzando una devastante guerra contro il governo degli Stati Uniti. Da una storia vera.
Maria di Pablo Larraín. Maria Callas secondo il regista cileno Pablo Larrain, dove la biografia diventa un affare privato. Sulla scia dei precedenti “Jackie” e “Spencer”. Curato, algido, un po’ superfluo. Al cinema dal 1° gennaio 2025.
Trois amies di Emmanuel Mouret. Amori e disamori nella Lione contemporanea attraverso il rapporto fra tre amiche. Comunicativo, brillante e piacevolmente chiacchierato, non si discosta dall’idea che abbiamo in testa di un film d’essai francese. E non è per forza un male, anzi.
El Jockey di Luis Ortega. Un inno alle cadute e alle risalite attraverso le tante vite che spesso non ci concediamo di vivere. Bella l’idea, un po’ dispersivo il risultato, ma ha trovato estimatori.
Joker: Folie à Deux di Todd Phillips. Era il più atteso e anche la maggiore delusione del concorso. Un seguito che perde la sintonia con il coraggioso capostipite sprecando una idea sulla carta originale, la virata al musical, e un’interprete dalla forte presenza scenica come Lady Gaga, il cui personaggio finisce per essere una eterna premessa. Al cinema dal 2 ottobre 2024.
Babygirl di Haline Reijn. Non è un thriller, come da più parti riportato, ma l’approfondimento del viscerale rapporto che si crea tra una super manager (Nicole Kidman che ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile) e un giovane stagista. A legarli gli stessi gusti sessuali all’insegna del sadomasochismo. Liquidato frettolosamente, riesce invece a sondare l’animo umano e la sua complessità senza cadere in facili giudizi.
Ainda Estou Aqui/ I’m Still Here di Walter Salles. Una storia di desaparecidos ambientata in Brasile nel 1971. Protagonista una donna in lotta contro la dittatura per dare dignità al marito sequestrato e poi scomparso. Bravissima la protagonista, Fernanda Torres.
Diva futura di Giulia Louise Steigerwalt. Riuscita rievocazione, leggera ma non superficiale, degli anni ’80 e ’90 in cui in Italia diventarono star, anzi porno star (termine coniato proprio allora), Ilona Staller, Moana Pozzi ed Eva Henger. A lanciarle l’agenzia che dà il titolo al film fondata da Riccardo Schicchi.
Harvest di Athina Rachel Tsangari. Una comunità agricola, in un’epoca e un luogo indefiniti, viene sconvolta dai primi passi verso la modernità. Progetto ambizioso, sulla carta molto interessante, ma allo spettatore concede poco pretendendo invece molto, troppo.
Qing Chun Gui/ Youth – Homecoming di Wang Bing. Lo sguardo del regista cinese che contamina il documentario di drammaturgia è sempre molto interessante, anche perché si sofferma su microcosmi del suo paese che non hanno alcuna visibilità (in questo caso alcuni operai della diffusissima industria tessile). Il problema è che si tratta dell’ultima parte di una trilogia e che le immagini arrivano nude e crude, con poche insufficienti didascalie alla fine, impedendo di contestualizzare e capire come si vorrebbe.
Stranger Eyes di Yeo Siew Hua. Da Singapore una sofisticata riflessione sulla contemporaneità attraverso un approccio inizialmente thriller (scompare la bambina di una giovane coppia) che però diventa gradualmente altro mescolando voyeurismo, percezione di sé e necessità di essere visti per dare un senso alla propria esistenza. Interessante, anche un po’ dispersivo.