Anora, recensione di Luca Baroncini
di Sean Baker
con Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Yuriy Borisov, Karren Karagulian
Anora lavora a Brooklyn in uno strip club dove le sue esibizioni sono a stretto confine con la prostituzione. L’incontro con il giovanissimo figlio di un oligarca russo che si innamora perdutamente di lei potrebbe rappresentare la svolta.
La storia di Cenerentola è tra le più utilizzate dal cinema, perché il gioco di potere che si evolve in seduzione e poi amore funziona sempre e fa sognare. “Pretty Woman” continua a essere stravisto ogni volta che passa in televisione e il cliché di qualcuno (generalmente un uomo ricco) che capisce il potenziale nascosto di un incontro casuale e gerarchicamente subordinato (spesso una donna povera), si innamora e risolve al contempo tutti i problemi economici del sottoposto, nonostante fiumi di parole sull’uguaglianza di genere, è ancora tra i più ambiti.
L’aggiornamento ai tempi operato da Sean Baker, regista tra i più apprezzati nel panorama del cinema indipendente statunitense, non prevede inversioni di ruoli o grandi novità, ma un approccio iniziale non troppo dissimile dai tanti film che lo hanno preceduto. La differenza è che la sua protagonista, nonostante la grinta, l’esuberanza e la determinazione, non è una vincente e non lo sarà mai e il ricco ricchissimo non è canuto ma giovanissimo. Celebrare il mito non è però ciò che interessa al regista, nemmeno indagarne il lato oscuro, ciò che gli preme sembra essere approcciare il noto con personalità, evitando di aderire a un genere specifico, per mostrare le contraddizioni del presente puntando all’intrattenimento.
Nonostante la malinconia che si respira e il sottotesto vagamente politico si tratta infatti di una commedia, dove si sorride più che ridere, e tutta la prima parte, con anche un po’ di ammiccamento verso ciò che poi si critica nella seconda, scivola con leggerezza. Nel momento di tirare le fila, però, quando ormai è evidente che il sogno potrebbe diventare un incubo, il film si dilunga molto, finendo per girare un po’ a vuoto (ma perché tutti i film ultimamente devono superare necessariamente le due ore di durata quando una sfrondata non potrebbe che giovargli?).
L’epilogo riequilibra un po’ le cose trovando un’intensità fino ad allora solo sfiorata. La protagonista getta finalmente la maschera dietro cui è abituata a nascondersi ed esce dal personaggio che ha deciso di interpretare mostrandosi per la prima volta fragile, mettendosi a nudo non solo fisicamente. Cinico, disincantato, anche tenero, con una piccola luce che si intravede là in fondo al tunnel, mi è piaciuto di più scrivendone che durante la visione, in cui a mancare è stata soprattutto l’empatia nei confronti della protagonista.
Palma d’oro al Festival di Cannes.