Woman of the Hour, recensione di Luca Baroncini (n°287)
di Anna Kendrick
con Anna Kendrick, Tony Hale, Daniel Zovatto
Ci sono storie vere che sono già talmente originali che sembrano poter dare vita a sceneggiature perfette. È il caso di “Woman of the Hour”, la cui sceneggiatura è stata inserita nel 2017 nella cosiddetta “black list” (un sondaggio annuale sulle sceneggiature più apprezzate ma ancora non prodotte), per poi essere acquistata da Netflix nel 2021. Si basa sulle gesta di un serial killer, Rodeny Alcala, che negli Stati Uniti di fine anni ‘70, tra una vittima e l’altra (e furono parecchie), decise di partecipare al gioco televisivo “The Dating Game”, il nostro “Il gioco delle coppie” per intenderci.
Il punto di vista del film è prevalentemente quello di una ragazza in cerca di fortuna come attrice che dopo tanti provini andati male accetta, in assenza di alternative e con l’affitto da pagare, di partecipare al gioco in veste di cacciatrice. Rischierà di diventare la nuova preda dello spietato assassino.
Lo spunto è interessante perché consente ad Anna Kendrick, regista al suo debutto e protagonista, di abbinare al thriller una descrizione molto critica della società maschilista di quel periodo, in cui essere donna significava essere persona di serie B: in televisione avevi un ruolo puramente decorativo, dovevi limitarti a sorridere senza esprimere il tuo pensiero, e nel quotidiano la tua parola valeva meno di quella di un uomo e anche se denunciavi non venivi presa sul serio.
Il primo problema, affine a molte opere a tesi che si fanno paladine della condizione femminile, è quello di polarizzare il punto di vista: tutti gli uomini in scena sono tra lo spregevole e il menefreghista e tutte le donne sono vittime. Con queste premesse a senso unico difficile entrare in empatia con i personaggi, più simbolo di qualcosa da dimostrare che emblemi della mutevole complessità della natura umana.
Il secondo problema è invece nella scansione dei fatti e nel ritmo che si imprime alla vicenda: la storia è raccontata in modo frammentato, alternando linee temporali differenti (senza che sia sempre immediato capire a che punto ci si trovi) che incrociano l’operato del serial killer, il quotidiano della protagonista e la trasmissione televisiva. L’effetto dei frequenti stacchi è di smorzare sempre più il coinvolgimento e di ridurre la tensione.
Si capta una volontà precisa di non spettacolarizzare, evitare ogni retorica, asciugare il più possibile, finendo però per rendere il film tanto corretto e misurato quanto distante e tutto sommato insipido.