Il paese delle vocali, recensione di Rino Ermini (n°181)
Autrice: Laura Pariani
Editore: Casagrande s. a.
Luogo di edizione: Bellinzona
Anno: 2000
Laura Pariani è nata a Busto Arsizio nel 1951. Ha insegnato per molti anni nella scuola superiore ma, che io sappia, da una quindicina ha abbandonato questo lavoro per dedicarsi unicamente a quello di scrittrice. Ho letto diversi suoi libri. Alcuni mi sono piaciuti molto, ad esempio “Di corno o d’oro”, “La Signora dei porci” e quello di cui dobbiamo parlare.
La Pariani nelle sue storie muove dalle terre lungo il Ticino comprese nel circondario di Magnago, Turbigo, Castano Primo, ecc., protagonisti i contadini che le abitavano, la loro vita, la povertà e la miseria, la condizione della donna, la disperazione. Insiste anche sul dramma dell’emigrazione e il legame profondo con l’Argentina, un paese amato, dove emigrò uno dei suoi nonni. Di tutto questo scrive in un italiano frammisto al dialetto di quel mondo, creando un amalgama originale ed armonioso che funziona bene.
Nella seconda metà dell’Ottocento, fra la gente contadina, oltre alla miseria c’erano anche analfabetismo e ignoranza. E lo Stato italiano appena nato, “massonico e borghese”, pur fra non poche contraddizioni e reticenze, cercò di dare almeno un’istruzione di base, scontrandosi per questo sia con la parte di borghesia più arretrata sia con la chiesa cattolica, in particolare quando l’istruzione elementare fu resa obbligatoria, i preti furono cacciati dalle scuole e l’insegnamento della religione fu abolito.
Il paese delle vocali, è un libro che si colloca in questo contesto. Una giovane maestra di Milano, figlia di tipografi e piena di entusiasmo, accetta di recarsi a insegnare in un paese di quelle lande trovandosi immersa in una realtà che non corrisponde affatto a quella studiata sui libri, una realtà piena di difficoltà, aggravate dallo Stato che, se da una parte voleva l’istruzione del popolo, dall’altra non agiva coerentemente per garantirla.
Questa giovane, nell’anno scolastico 1884-1885, va dunque a Malnisciola, un paese che può essere reale o inventato, non ha importanza, e dove “...i fiuritti hanno la schiena precocemente curva a forza di portare sidele e fascine, gli occhi tristi di chi conosce le botte e l’obbedienza senza repliche alla mano di ferro del padre e della madre... [che]... fin dal momento della nascita, sanno della vita solo le cose più buie: la fame, il freddo, le malattie, la paura. Per questo hanno, propri tame i grandi, una piega amara sulla bocca, al posto del sorriso, e le dita callose, adatte alla zsappa; e, come gli adulti, trìbulano fin dall’alba, giocano alla morra, sputano, smadònnano; ché alla fine della giornata, nelle pieghe delle nocche o intorno agli ongi rimane loro, come ai grandi, un orlo di terra argillosa, colore del sangue buttato a lavorarla”. Questi “fiuritti”, in quanto “scolari”, sono “un muro di facce: 123 tra maschi e femmine, divisi in tre classi, prima seconda e terza”, raccolti in un edificio, la scuola, fatto da “...due locali, che un tempo fungevano da essiccatoio per le castagne... le pareti sentono di muffa, il pavimento è di terra battuta; una cattedra, vecchi banchi neri con i sedili rotti, un po’ di panche polverose, una mensola vuota; due finestre a inferriate senza imposte...”
E come è lei, la maestra? Si vedrà nel corso del racconto. Ma il prete del paese, senza averla nemmeno vista, ché non ne ha bisogno, già tuona dall’altare: “...non c’è maggior ladro d’un cattivo libro, ché tutti sapienti non si può essere e chél ca al nass asnén, asnén al mor; e, oltre tutto, metter la scuola nelle mani di una foresta, laica e giovane per soramasoss, chissà a che cosa porterà, quali perversi costumi cittadini entreranno con questa donna a Malnisciola, Sodoma e Gomorra son mica lontane, ve lo dico col cuore che mi si stringe, miei poveri parrocchiani, ma martello d’oro al podi no rumpi le porte dul ciel, ché sopra la sale gh’é mìa da savùr e sopra Domeneddìo gh’è mia da signùr...”
Come finirà? Nella realtà finiva spesso con l’autoritarismo, spesso con il fallimento totale. E a volte no. “Io credo nel mio mestiere di maestra... nell’importanza della scuola, nel valore delle parole...”, dice la giovane insegnante protagonista. Bello un passaggio in cui, di fronte a una maestra scoraggiata fino al pianto, una bambina catturata dall’ascolto della lettura di un brano di Pinocchio, racconta a sua volta alla maestra la storia di quando dio creò l’uomo, e siccome “al vuréa vess bundanzius, n’ha faj do: il Ricco e ul Puarasciu”. Non vorrei dirvi altro, tranne che nel citare il testo non ho trovato il modo di riportare correttamente molti degli accenti presenti nel dialetto. Non dovrebbe essere un problema, basta leggere il libro e si ha la versione corretta.