Lettera a un insegnante, recensione di Rino Ermini (n°202)
Autore: Vittorino Andreoli
Editore: Rizzoli
Luogo di edizione: Milano
Anno: 2006
Pagine: 175
Vittorino Andreoli è nato a Verona nel 1940. È psichiatra e scrittore, si occupa prevalentemente di adolescenti e un nutrito elenco delle sue opere lo trovate in Wikipedia. L’autore, a pagina 173 del nostro libro, di sé dice che è “uomo del quotidiano, un operatore delle piccole cose o delle rivoluzioni fatte con poco e sempre senza fucili”. Adopera spesso, e mai in senso derisorio o negativo, la parola utopia.
Il libro non è un romanzo o un racconto o, più in generale, un’opera letteraria che abbia la scuola per protagonista; non è insomma quel genere di lavoro che dovremmo prendere in considerazione in questa sede. Non è la prima volta che ci capitano simili disguidi, e non sarà l’ultima. Il libro è una “lettera” che l’autore scrive a un insegnante (maschio, perché fra l’articolo e il sostantivo non c’è l’apostrofo). Personalmente l’avrei scritta a un’insegnante (con l’apostrofo): in primo luogo perché a svolgere questa nobile professione mi sembra che in larga maggioranza siano ancora le donne; e poi perché, non so come, a scrivere a una insegnante credo mi sarei trovato meglio. Ma questi sono affari miei e non c’entrano granché.
È una lettera perché è scritto nel titolo e perché l’autore ce lo ricorda ogni tanto con frasi buttate qua e là, ma nella realtà è un saggio vero e proprio sulla scuola, gli insegnanti, gli studenti, gli adolescenti, e sul funzionamento del cervello umano. È soprattutto un saggio sul perché le scuole, e i docenti che ci lavorano, dovrebbero avere caratteristiche e metodi educativi alquanto diversi da quelli in genere oggi adottati; insomma dei metodi più rispondenti ai bisogni degli scolari, degli studenti, delle loro famiglie e anche della società nel suo complesso: tutte entità che, stando all’autore, non hanno o non dovrebbero avere l’esigenza di un mercato, del profitto, del consumismo, della concorrenza, della competizione e altre simili bestialità. E ciò almeno fino ai diciotto anni, età in cui a grandi linee dovrebbero terminare l’adolescenza e la scuola dell’obbligo. Dopo, dice Andreoli, quando si va all’università, se la società è fatta come è fatta, allora si parli pure di mercato e di competizione e concorrenza. “Se mi chiedete se io amo questa società posso dire che la trovo crudele... e non ne sono entusiasta” (pagina 171), ma così è. Insomma, sembra di capire che Andreoli non ama la società di oggi e riguardo all’istruzione vorrebbe una scuola totalmente diversa da quella esistente, fatta salva l’università che, visto che è frequentata da gente adulta, vada come vada e si adegui alla società. Il discorso è chiaro, ma mi pare che presenti qualche contraddizione e qualche problema su cui però non è il caso di entrare ora perché credo sarebbe un po’ troppo lungo venirne a capo.
Un punto importante per il nostro autore, un punto sul quale a me sembra abbia molte buone ragioni, è che nella scuola dell’obbligo non bisogna bocciare (una scuola dell’obbligo che dovrebbe arrivare al diploma). E bisogna abolire gli esami. “Auspico che spariscano [e] spero rimanga solo quello dell’ultimo anno delle superiori. Mi pare possa essere visto più in generale come un anno di valutazione: valutazione, non giudizio, che non ammette promossi e bocciati, ma la percezione della fine di un’epoca scolastica che si apre ora all’università o al lavoro. Un periodo per applicarsi a dimostrare la propria preparazione” (pagina 167).
Andreoli sostiene che la scelta delle superiori (si intende quello che un tempo era il triennio e ora non so più che cosa sia) debba essere effettuata al termine del biennio, insomma nel momento in cui a grandi linee finisce il periodo più critico dell’adolescenza e si hanno più strumenti per scegliere oculatamente. È evidente la critica alle demenziali e devastanti cosiddette “riforme” di ministri e governi neoliberisti ed incompetenti, tutte finalizzate alla privatizzazione, ai tagli e alla distruzione del servizio pubblico, in particolare è evidente la critica allo spostamento della scelta dell’indirizzo delle superiori indietro nel tempo, cioè agli undici/ dodici anni di età.
Andreoli chiede agli insegnanti di abolire i compiti a casa. È cosa di cui c’è chi parla da decenni, ma è una questione dura da risolvere. Per compiti a casa io intenderei anche quelli delle vacanze. L’autore sostiene che i compiti sono una grande difficoltà per molti e creano non pochi problemi alle famiglie, in particolare alle più povere e alle meno preparate dal punto di vista educativo; senza contare il fatto che spesso i compiti, soprattutto per chi ha meno abilità nel farli, portano via tempo a danno di qualsiasi altra attività. Molti finiscono poi col non farli e questo può tradursi in un ulteriore svantaggio a scuola per i più deboli. Se proprio non si vuole abolirli, andrebbero adeguati alle forze di ciascun studente e assegnati in modo tale che effettivamente sia possibile farvi fronte. C’è chi sostiene però, e secondo me costoro non hanno tutti i torti, che i compiti a casa certo sono sovente un problema perché calibrati male, ma anche perché le famiglie e gli studenti spesso sono portate a dare più importanza ad altre cose piuttosto che alla cultura e all’istruzione, per esempio alla televisione, al personal computer, al cellulare, all’oratorio, al calcio e via elencando.
Agli inizi della mia carriera di insegnante provai per alcune settimane a fare i compiti a casa anch’io, quelli che davo ai miei studenti. Mi resi conto che io stesso faticavo a terminarli. Da qui fu immediata la soluzione: darne meno, e contemporaneamente aprire una vertenza nei consigli di classe e nei collegi, durata un’intera carriera, perché fosse tutto il consiglio di classe a calibrarli meglio e a darne in minore quantità. Fuori discussione l’idiozia che i docenti, per lavorare meno in aula, darebbero agli studenti molti compiti a casa.
Vorrei concludere perché mi sono dilungato fin troppo, e vorrei farlo con una modesta idea. Questo libro si presterebbe ad essere sintetizzato raccogliendone le frasi più significative in un fascicoletto che poi potrebbe essere distribuirlo in copia a studentesse, studenti e docenti di una scuola con l’invito a leggerlo e discuterne, magari in modo informale, per alcune settimane; quindi fare un’assemblea in ogni classe per discuterne un’ultima volta in modo organico e trarre le conclusioni. Un’assemblea che funzionasse ovviamente con criteri chiari: sviscerare l’argomento senza uscire dal tema, interventi brevi per consentire a tutti di parlare, ascolto attento, eventuale verbalizzazione e infine sintesi e conclusione con l’obiettivo di apportare modifiche alla didattica usata. Perché non potrebbe essere possibile? Perché non partire da un testo che propone non pochi cambiamenti e tentare di prenderli in considerazione, ragionarci e da essi muovere per aggiustare metodologie e contenuti?