La pratica dell’autogestione, recensione di Luciano Nicolini(n°209)
È uscito recentemente, edito da Elèuthera, il libro “La pratica dell’autogestione” di Guido Candela e Antonio Senta. Si tratta di un testo importante, perché con esso gli autori tentano di rifondare su basi più solide la proposta anarchica.
Vi riescono, a mio parere, solo parzialmente ma, come si sa, in questo mondo di facile c’è ben poco…
Il loro ragionamento, se ho ben capito, è il seguente:
1) l’autogestione presuppone un comportamento altruistico (o, come essi lo definiscono, we-oriented);
2) gli anarchici sono altruisti;
3) pertanto sono i più adatti a trasformare radicalmente la società costruendo, qui ed ora, al suo interno, un’autonoma alternativa autogestita.
Che una società basata sull’autogestione richieda una certa dose di altruismo, è piuttosto probabile. Io stesso, nello scrivere, nel 1995, l’articolo 1 degli “Appunti per una costituzione libertaria” (il mio testo cui tengo di più), lo feci cominciare così: “L’Italia è una repubblica libertaria fondata sulla solidarietà” (e non me ne pento). Devo però confessare che tale scelta fu dovuta più alla necessità di intervenire sulla brutta formulazione dell’articolo 1 della costituzione della repubblica italiana (che recita “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”) che a una profonda convinzione. Ho sempre ritenuto infatti che il socialismo libertario, e quindi l’autogestione, fosse conveniente per tutti, e potesse quindi fondarsi anche su di un calcolo egoistico. Ora non ne sono più tanto sicuro; forse “la verità sta nel mezzo”, ma non sono neppure convinto che l’autogestione possa fondarsi soltanto su di un comportamento altruistico.
Diversamente da me la pensano Candela e Senta. «Sosteniamo – scrivono nell’introduzione – che l’autogestione comporti una modifica nel ragionamento dell’economia. La razionalità si conferma come metodo d’analisi, ma è applicata alla logica del “noi” piuttosto che alla logica dell’ “io”, una visione che indica il passaggio da un’economia riferita all’homo oeconomicus, egoista e non cooperativo, all’economia di un uomo diverso, altruista e solidale, cui diamo il nome di homo reciprocans». E, ancora, nel terzo capitolo, «lo Stato vive sull’economia dell’io, quella centrata sull’homo oeconomicus, mentre l’autogestione richiede agenti che si ispirino alla razionalità del noi, un uomo diverso cui spesso si dà il nome di homo reciprocans». Del resto, a loro modo di vedere (capitolo quarto), «l’anarchia sostiene una precisa convinzione a priori che si fonda sulla solidarietà».
Rimango perplesso, e per fortuna, dato che diffido dalle proposte politiche che richiedono il passaggio a un «uomo diverso, altruista e solidale»; e non perchè ritenga la cosiddetta “natura umana” immodificabile, ma perché so quanto è difficile modificarla.
Circa l’affermazione che gli anarchici siano, in generale, altruisti, mi trovo sostanzialmente d’accordo. Non tutti però lo sono.
Candela e Senta si domandano «se l’adesione all’anarchismo motivi nei fatti l’altruismo, la cooperazione sinergica e l’autogestione fondata sulla razionalità del noi» (capitolo quarto), dando per scontato che «l’anarchia del noi (…) postula la tendenza pratica degli anarchici all’altruismo, alla cooperazione e alla we-rationality, più volte indicate come premesse necessarie per muovere verso l’autogestione e il federalismo locale e non locale» (capitolo settimo). Allo scopo effettuano su di un gruppo di anarchici una serie di esperimenti che dimostrerebbero, come è scritto nelle conclusioni, «un forte altruismo condizionale all’adesione ai principi libertari».
Ne sono lieto. Rimane tuttavia il dubbio che gli esiti cooperativi nel gioco del “dilemma del prigioniero” siano dovuti non tanto al fatto che «il libertario è un cooperatore incondizionato» (capitolo ottavo) quanto al fatto che, per tradizione, disprezza ogni tipo di pentitismo (“e quando mi portarono in tribunale/ chiedendo se conosco il mio compare:/ sì sì che lo conosco, ma son dell’anarchia/ Caserio fa il fornaio e non la spia”, dice una nostra vecchia canzone).
E veniamo alla terza parte del ragionamento, quella in cui sembra si sostenga la possibilità di trasformare radicalmente la società capitalistica costruendo, qui ed ora, al suo interno, un’autonoma alternativa autogestita. Dico “sembra si sostenga” perché, in realtà, tale proposta non è mai fatta in maniera esplicita.
«L’idea di una “presa del potere” non più a livello centrale (lo Stato nazionale) ma dal “basso” (riferita alle sue istituzioni di vario livello) – scrivono Candela e Senta nell’introduzione – è semplicemente un’idea che moltiplica invece che abbandonare il governo: cioè una mistificazione. Il senso ultimo del nostro lavoro è invece una diffusione anti-istituzionale dell’esercizio e dell’uso del potere, cioè fuori dallo Stato, per conquistare spazi che non si servono dei suoi strumenti; contro lo Stato, per rovesciare le resistenze che può opporre alla diffusione di un’autogestione plurale e federalista». Inoltre, «a fronte del fallimento della macropolitica dell’anarchismo classico», sembrano propendere per «una rivoluzione condotta nell’esperienza di tutti i giorni, un procedere sperimentale che apre spazi autonomi di autogestione contesi al sistema dominante» (capitolo sesto), e concordare poi, nelle conclusioni, con quanto afferma Mignard, secondo il quale:
«Apparse nel XIX secolo per lottare contro gli eccessi dello sviluppo capitalista delle società nell’Europa occidentale, sotto forma di cooperative e di ciò che verrà chiamata più tardi l’economia sociale e solidale, queste strutture rappresentano delle alternative alla condizione imposta dal sistema al proletariato (…). Queste strutture, benchè non siano interamente scomparse, di certo sono degenerate in aziende puramente capitaliste, sono rimaste al margine della contestazione del sistema (…). Solo verso la fine del XX secolo (…) sono riapparse sotto differenti forme. Considerate all’inizio come strutture più o meno marginali, che riuniscono gli “emarginati”, stanno per diventare una vera e propria alternativa che permette (…) soluzioni soddisfacenti e perenni». (brano riportato dagli autori)
Siamo alle solite: nel senso che quella di creare strutture autogestite autonome che dovrebbero gradualmente sostituirsi alle istituzioni esistenti andando così a costituire una nuova società egualitaria e libertaria è una vecchia proposta che di tanto in tanto riaffiora nel movimento. Ma – mi domando – è credibile? Se guardiamo al passato del movimento operaio, in Italia (e in particolare in Emilia-Romagna) abbiamo forse l’esempio più vasto e duraturo di messa in pratica di tale strategia: il movimento cooperativo. Ha contribuito a trasformare la società in senso ugualitario e libertario? O si è, piuttosto, gradualmente trasformato in uno strumento di sfruttamento dei lavoratori? Buona la seconda, direi.
Si può obiettare che, se è per questo, anche la gran parte dei sindacati e delle organizzazioni rivoluzionarie della sinistra si è trasformata in strumento del potere e, tuttavia, la necessità dei sindacati e delle organizzazioni non viene messa in dubbio dai compagni che praticano l’anarchismo sociale. Ed è ben vero. Lasciamo allora da parte il passato, e parliamo del presente che stiamo vivendo, a partire da ciò che conosciamo meglio.
Personalmente sono impegnato in due «spazi autonomi di autogestione». Il primo è la rivista che state leggendo: la testata è proprietà di Luciano Nicolini che la edita avvalendosi della sua ditta individuale ma, di fatto, è autogestita da tutti i redattori che hanno uguale diritto di proposta, di voto e di veto. È pensabile che si sostituisca, gradualmente, ai mezzi di comunicazione di massa gestiti dalle classi dominanti? Mi sembra improbabile: al momento fa fatica a stare in pari. È inoltre da segnalare che, se esce regolarmente ogni mese, è grazie al lavoro gratuito dei redattori e in particolare del sottoscritto, che può permettersi di dedicargli il tempo necessario grazie a un gruzzoletto custodito in una banca gestita da borghesi e difesa da guardie armate il cui compito è difendere le loro ricchezze. È fuori dal «sistema dominante»? Direi proprio di no.
L’altro «spazio autonomo di autogestione» in cui sono coinvolto è la Biblioteca Libertaria Borghi di Castel Bolognese. Questa è proprietà di una cooperativa, per cui, almeno dal punto divista formale, siamo a posto. Ma anch’essa vive grazie ai denari e al lavoro volontario dei suoi soci, e di uno in particolare, (ironia della sorte) dipendente statale. E se qualche prepotente forzasse la serratura della biblioteca, ne occupasse i locali e magari, già che c’è, si mettesse a vendere qualche libro su eBay? Andremmo a cacciarli via con la forza? Oppure, per evitare di finire in galera condannati per “violenza privata”, ci rivolgeremmo alla polizia dell’odiato stato borghese?
Di certo, il problema si porrebbe…
Potrei proseguire con altri esempi relativi a situazioni che non vivo in prima persona ma, conoscendo la suscettibilità degli anarchici, mi astengo dal farlo.
Mi preme invece segnalare che le mie perplessità non si fermano qui: riguardano anche il futuro. Supponiamo che si voglia creare una “sanità autogestita”, istituendo ambulatori e ospedali del tutto autonomi dal Servizio Sanitario Nazionale, controllati dai cittadini. La cosa è senz’altro possibile, ma significherebbe, in pratica, pagare la sanità due volte: una, attraverso le tasse, per contribuire al Servizio Sanitario Nazionale, la seconda per foraggiare le istituzioni autogestite.
Non mi sembra un grande affare, a meno di rifiutarsi di pagare le tasse (cosa peraltro possibile solo ai lavoratori autonomi) rischiando sanzioni salatissime e incoraggiando, di fatto, l’evasione fiscale.
Qualcuno, a tale proposito, obietterà che evadere il fisco “è cosa buona e giusta”, dato che quest’ultimo serve soprattutto a togliere a chi possiede di meno per dare a chi possiede di più. E vi sono validi argomenti per sostenerlo. Ma le tasse, in uno stato moderno, servono anche a garantire servizi (come le strade o i musei) che tutti utilizziamo.
Ancora più problematica è la proposta, della quale abbiamo più volte discusso su questa rivista, di creare un “sistema pensionistico autogestito”. Anche in questo caso si tratterebbe di pagare due volte: la prima all’Inps, la seconda per foraggiare le pensioni autogestite. Non mi sembra un grande affare.
Inoltre, come si investirebbero i relativi accantonamenti? In titoli di stato? Date le premesse, mi sembra improbabile. Investiremo in imprese capitalistiche, diventando soci in affari con la grande borghesia? Non credo si voglia prendere esempio da quei grandi sindacati statunitensi che lo fanno abitualmente pagandone però, per intero, il prezzo politico. Investiremo in immobili? E se poi gli inquilini non pagano? Andremo a cacciarli via con la forza? Vi rinunceremo e dilapideremo in tasse e spese di manutenzione i capitali di chi ha contribuito alle pensioni autogestite? Oppure chiederemo ai tribunali dello stato borghese di servirsi della sua polizia per sfrattare gli inquilini morosi?
Non procedo oltre. Volevo soltanto sottolineare che creare strutture autogestite che, all’interno del sistema capitalistico, si mantengano con le proprie forze è piuttosto difficile, non solo perché bisogna saperlo fare, ma anche perché la terra fertile, le materie prime e le tecnologie sono saldamente nelle mani delle classi dominanti. E ancora più difficile è farlo conservando intatta la propria autonomia dalle istituzioni dello stato. Pertanto, senza sottovalutare l’importanza di tali strutture alternative come palestre di autogestione, ritengo non si possa rinunciare alla «macropolitica dell’anarchismo classico», sia quando si propone di modificare gradualmente il contesto politico e sociale entro il quale viviamo ed operiamo, ampliando gli spazi di libertà e favorendo per quanto possibile una ridistribuzione delle ricchezze e del potere, sia quando si tratta di difendere, mettendo in campo, se necessario, la propria forza organizzata, le conquiste ottenute con decenni di lotte politiche e sociali.