Stefano d’Errico: La scuola distrutta, recensione di Luciano Nicolini (n°229)
È recentemente uscito (ottobre 2019), edito da Mimesis, il libro di Stefano d’Errico intitolato “La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese”.
Più che un libro è un trattato, dato che consta di ben 614 pagine (cui si devono aggiungere l’indice dei nomi e la bibliografia).
Premetto che non mi ha soddisfatto, né ciò che sostiene, né come lo sostiene, ma che vale la pena di leggerlo in quanto (e di questo bisogna dare atto al suo autore) affronta problemi reali anziché limitarsi, come troppo spesso avviene in campo libertario, a riaffermare principi validi quanto generici.
Contiene numerose ripetizioni (è tipico dei docenti ribadire più volte i concetti, nella speranza che entrino nella testa dei discenti) e altrettanto numerose divagazioni (capita anche a me, quando insegno, di divagare, nella consapevolezza che spesso le divagazioni sono le sole cose che il discente ricorda); nondimeno direi che possa, approssimativamente, essere diviso in sei diverse parti.
Una prima nella quale l’autore esprime il suo pensiero sull’educazione; una seconda dedicata alla storia recente del sindacalismo nella scuola; una terza nella quale viene descritto il percorso attraverso il quale, negli ultimi trent’anni, l’educazione pubblica è stata volutamente sabotata; una quarta che contiene le proposte dell’autore.
In quella che vedo come una quinta parte (la suddivisione, ribadisco, è mia) d’Errico allarga il suo orizzonte per parlare dello spreco di risorse pubbliche, dell’immigrazione, della speculazione finanziaria, della trasformazione della società italiana e di come ci viene descritta; la sesta, infine, è dedicata al Movimento 5 Stelle e ai pasticci che accompagnano tutta la sua storia.
Nella prima parte del libro d’Errico tesse l’elogio degli anni della contestazione giovanile (1968 e dintorni) e, contemporaneamente, della scuola gentiliana (pur riconoscendone la natura classista): un atteggiamento che lascia assai perplessi, se si considera che la contestazione giovanile fu innanzitutto contestazione della scuola creata da Giovanni Gentile con quella che, giustamente, Mussolini aveva definito “la più fascista” delle leggi da lui imposte al paese. Ma la contraddizione non è così grande come sembra. In effetti i contestatori italiani (per la maggior parte marxisti) avevano in comune con Gentile il disprezzo per ciò che la sua scuola aveva relegato in secondo piano: la cultura scientifica, la cui diffusione aveva reso possibile, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il grande lo sviluppo del socialismo e dell’anarchismo. Ed è stato proprio il disprezzo per la cultura scientifica, a mio parere, uno dei maggiori limiti della contestazione degli anni sessanta e settanta.
Nella seconda parte del libro, come si è detto, l’autore ripercorre la storia recente del sindacalismo nella scuola, ricostruendola in modo sostanzialmente corretto (per quanto possibile a un militante che di tale storia è stato fra i protagonisti).
Nella terza descrive le tappe del sabotaggio della scuola pubblica; sabotaggio che fa iniziare con l’opera del ministro Berlinguer, per culminare nel periodo in cui era ministra la Moratti e proseguire poi, senza soluzione di continuità, fino ai giorni nostri.
Non sempre concordo con le cose che dice. Tra l’altro, pur essendo anch’io convinto che l’attacco alla scuola pubblica sia stato in parte pianificato dall’alto, mi sembra che d’Errico sottovaluti il ruolo in esso giocato dall’umana stupidità, che sola può spiegare certe scelte…
La quarta parte del libro è dedicata alle proposte dell’autore per una riforma della scuola: alcune condivisibili, altre assai meno; ma non è il caso, in questa sede, di dilungarvisi. Un punto sul quale ritorna più volte è quello della separazione del contratto della scuola da quelli del pubblico impiego: gli insegnanti e gli ata, a suo parere, dovrebbero godere di uno status superiore agli altri lavoratori e, in larga parte, autogestire il proprio lavoro, arrivando anche ad eleggere i propri coordinatori.
E perché gli altri lavoratori no? Se è giusto che l’intera collettività decida quali materie si debbano insegnare e i docenti, in virtù della propria competenza, decidano come farlo, non si comprende perché un funzionario di un ufficio di statistica (per citare un lavoro che ho fatto per molti anni) non debba avere anch’egli il diritto di decidere come portare avanti le rilevazioni che la collettività ritiene necessarie, e di scegliere autonomamente i propri coordinatori.
Mi astengo dal commentare, anche sinteticamente, il contenuto delle parti finali del libro, perché, data la vastità degli argomenti trattati, non basterebbe un numero intero di Cenerentola. Mi limito a chiudere questa breve recensione con una considerazione personale: visto che la “buona scuola”, a dispetto di tutte le corbellerie dei ministri della (sempre meno pubblica) istruzione, la fanno (e continuano a farla) i “buoni insegnanti”; e visto che gli insegnanti vengono in gran parte formati all’interno dell’università italiana; perchè non iniziare la riforma da quest’ultima? È l’università infatti, a mio parere, la grande malata del sistema italiano di educazione; e mi sembra che d’Errico, meticoloso nell’analizzare il mondo della scuola, non lo abbia messo sufficientemente in evidenza.