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Categoria: Libri
Creato Lunedì, 19 Settembre 2005

Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà, recensione di Toni Iero (n°64)

Il concetto di partenza di Sen (premio Nobel per l’economia nel 1998) è che la crescita economica abbia come fine ultimo lo sviluppo della libertà umana, intesa in senso lato: libertà di non morire prima del tempo, di non ammalarsi per malattie curabili, di riuscire a capire il mondo in cui si vive, di poter esprimere il proprio pensiero, di vivere in un ambiente sano, etc

In sostanza, secondo l’autore, lo sviluppo consiste proprio nel mettere ogni essere umano nelle condizioni di cercare di realizzare lo stile di vita cui ambisce. È un buon inizio.

Nel prosieguo della trattazione, l’autore sostiene che la libertà, oltre a rappresentare il fine ultimo dello sviluppo economico, costituisce anche un fattore che, a sua volta, contribuisce ad una stabile e duratura crescita dell’economia. In tal senso, afferma, la democrazia non va intesa come un "lusso" che ci si può permettere solo dopo aver raggiunto un determinato livello di prodotto interno lordo pro capite. Illuminante, in tal senso, è il fatto, sottolineato da Sen, che nessuna carestia sia mai stata registrata in un paese dotato di un minimo di libertà; l’economista spiega, in maniera convincente, come le carestie nei paesi del terzo mondo non siano frutti inevitabili di cali della produzione agricola, bensì abbiano come cause determinanti un’ineguale distribuzione dei redditi e l’esistenza di un potere centrale che non deve rispondere del proprio operato.

Sen attacca, con molta pacatezza ed altrettanta lucidità, anche certo relativismo culturale, secondo cui la libertà e la democrazia sarebbero valori "occidentali", inadatti alle popolazioni di altre civiltà. È diffusa, in Asia, la teoria che asserisce che i popoli di quel continente sarebbero naturalmente più propensi a dare un maggiore rilievo all’ordine e alla disciplina autoritaria che non alla libertà personale. Peccato che tale tesi sia sostenuta, guarda caso, proprio dai militari golpisti e dai presidenti – dittatori al potere.

Altro punto centrale per l’autore è che il reddito monetario non sia una variabile sufficiente per identificare la povertà. Fanno riflettere i dati, riportati nel volume, che mostrano come la popolazione nera degli Stati Uniti, pur avendo un reddito medio molto maggiore, abbia una speranza di vita inferiore a quella degli abitanti del Kerala, uno degli stati più poveri dell’India, dove però le autorità locali hanno, da molti anni, attivato progetti di alfabetizzazione e di assistenza sanitaria su larga scala. Particolarmente efficace risulta essere, anche ai fini del contenimento demografico, l’alfabetizzazione femminile, che comporta un miglioramento della qualità della vita sociale nel suo complesso.

Trovo condivisibile l’idea di fondo che emerge dalla lettura del volume: l’economia non può occuparsi solo di alcuni aggregati, trascurando informazioni e obiettivi più generali che contribuiscono a caratterizzare le condizioni di vita della comunità. Forse, però, a questo punto, accanto allo studio accademico, si manifesta anche una sensibilità alla riforma sociale, cui Sen non sembra volersi sottrarre del tutto. Se queste sono le basi di partenza, non possiamo che attendere con interesse ulteriori frutti.

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