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Categoria: Scuola e università
Creato Giovedì, 01 Settembre 2016

perrinoL’accoglienza e la “buona scuola”, di Rino Ermini (n°193)

Da molti anni nella scuola esiste la cosiddetta “accoglienza”, cioè una serie di attività di inizio anno scolastico volte ad “accogliere” i nuovi iscritti.

Dette attività possono essere di diversi tipi e variamente organizzate: si va da quelle che effettivamente mettono a loro agio i nuovi studenti e li avviano alla costruzione di un percorso positivo nella scuola che hanno scelto a quelle che devastano il nuovo arrivato facendogli subito capire come va il mondo e facendogli dire nel giro di due giorni “ma chi me l’ha fatto fare di venire in questa scuola?”.

 

Nel mio Istituto alcuni docenti, e io fra quelli, facevamo accoglienza organizzando dei trekking di uno o più giorni. Personalmente per diversi anni, d’accordo ovviamente con studenti, genitori e colleghi, subito nel mese di settembre o al massimo ai primi di ottobre, questa accoglienza la concretizzavo in tre giorni passati a camminare in alta montagna, in una laterale della valle dell’Ossola. Andavamo in un albergo isolato, molto simile a un rifugio, a quasi duemila metri di quota, che aveva alcune ottime caratteristiche. Ad esempio non c’era la televisione.

Per andarci usavamo i mezzi pubblici, cioè treno ed autobus, per semplice scelta educativa, rinunciando al pullman privato tipico della classica “gita scolastica”. Da dove ci lasciava l’autobus si andava ovviamente a piedi. Qualche borbottio e qualche madonna non mancavano, ma direi che rimanevano nell’ordine del fatto insignificante. Arrivavamo il primo giorno e ci sistemavamo in albergo e poi subito a camminare su itinerario adeguato, tanto per acclimatarci. Il secondo giorno colazione e poi via di nuovo su un itinerario più lungo che ci avrebbe impegnato fino al tardo pomeriggio. Il terzo giorno si scendeva di nuovo a piedi fino al fondovalle ad incontrare l’autobus. Varianti ammesse, ma quasi sempre dovute a condizioni climatiche.

Quando salivamo, di solito nei prati intorno all’albergo stazionava una mandria di alcune decine di vacche che erano appena scese dagli alpeggi più alti e lì si fermavano qualche giorno in attesa di fare un’altra tappa verso valle. Conoscevo il malgaro e sua nuora e ogni anno ci invitavano nella casera per qualche ora ad assistere alla lavorazione del latte. Sua nuora, appassionata di quel lavoro, anche lei uscita da un Istituto tecnico agrario come il nostro, una mattina ci buttò giù dal letto dicendoci che stava nevicando, che entro un’ora avrebbe mosso la mandria per portarla a un paio d’ore di cammino più in basso e che ci sbrigassimo se volevamo seguirla.

Siamo stati pronti in mezzora e sotto una neve che veniva giù a vento si è formato questo corteo: suocera della nuora avanti, alcune decine di vacche snocciolate per qualche centinaio di metri lungo il sentiero, quattro o cinque cani ai lati che andavano avanti e indietro a fare il loro mestiere ma più che altro a far casino presi da quello che facevano i ragazzi, e dietro un prof ed una prof con una ventina di studentesse e studenti scalmanati che sembravano matti di felicità. Fra suoni di campani, qualche grido e abbaiar di cani, ogni tanto chiacchierando con la nuora che non mancava di spiegarci il perché ed il percome anche delle cose più improbabili, siamo scesi per ore. Poi, lasciata la mandria al suo destino, siamo risaliti. Bella esperienza.

Quando camminavamo in escursioni, diciamo così, normali, io stavo davanti facendo un passo tranquillo. Se c’era qualche spiegazione da fare mi fermavo e parlavo, brevemente, a quelli che mi stavano vicini. Non tutti ascoltavano. Poco male. A volte un po’ facendo i furbi e un po’ giocando, si organizzavano: un gruppo stava vicino a me, per quando davo spiegazioni, quelli più indietro facevano i loro affari. Dopo un po’ si davano il cambio. Quelli che avevano ascoltato passavano dietro e gli altri avanti.

In questi trekking mi portavo nello zaino qualche mela biologica delle mie, quelle che mia figlia chiama le mele col baco. Le mie erano le mele che avevano vinto il concorso delle mele più brutte del Valdarno. Erano di specie diverse, oggi scomparse, almeno credo. Alcune buonissime, altre immangiabili, che raccoglievo da vecchi meli in campi abbandonati da tempo e ridotti ormai a boscaglie. Camminando tiravo fuori una mela e il coltello e cominciavo a sbucciarla. Ne tagliavo uno spicchio per me e uno per chi mi stava vicino. C’era sempre chi mi chiedeva: “Prof, ma che mele sono?” E poi i commenti: “Accidenti come sono buone!” “Boia, prof, quanto fanno schifo! Ma come fa a mangiarle”, “Accidenti quanto sono cattive”. Era l’inizio di un discorso che durava poi anni nelle mie lezioni su agricoltura biologica e ambiente. Si, lo so, io insegnavo Storia e Letteratura. Perché? L’ambiente e l’agricoltura biologica non hanno alcuna attinenza con la letteratura e la storia? Accidenti, se ce l’hanno. E se non bastasse, c’è l’educazione civica.

L’ultimo giorno, quando scendevamo, facevo loro fare un sentiero molto lungo che dai pascoli alti entrava prima nelle abetaie e nelle faggete e poi, più in basso, in boschi di castagni. Lo chiamavano il sentiero delle bestemmie perché soprattutto in un tratto difficile e faticoso ne tiravano un bel po’. E meno male che non erano toscani e diversi di loro frequentavano i boy scout! Data la stagione, mi piaceva raccattare qualche castagna, sbucciarla e mangiarla strada facendo fra un pensiero e l’altro. C’era sempre la curiosa o il curioso: “Prof, ma che fa? Mangia le castagne crude?” “Certo, vuoi assaggiarle?”. Naturalmente poi volevano provarle tutti e se le sbucciavano se qualcuno aveva il coltello oppure gli facevo vedere come si possono sbucciare con i denti usandoli come li usano un coniglio, una lepre o una capra. Così mentre sbucciavo, parlavo. Delle castagne, che non ce n’è un solo tipo, che i castagni non son tutti uguali, della cultura della castagna e dell’importanza di questo frutto e della farina di castagne e delle popolazioni di montagna, ecc. ecc. Ce n’erano di cose da dire. E se avevo voglia, non parlando sempre io ovviamente, ma lasciando che interloquissero e giocando sulle loro osservazioni si poteva arrivare a una canzone di Guccini dove si parla di castagne e della guerra in Russia e a un libro dove l’autore si pone il problema del perché si sono formate culture della castagna ma non della faggiola, cioè il seme del faggio, che pure è commestibile e ricco di sostanze. E dei poveri. E del pan di legno e del vin di nuvoli. Altra lezione. Altro inizio.

Cose buffe? Tante. A volte da riderci ancora. Durante un percorso uno del gruppo trova il cranio ormai imbiancato di un capriolo, lo issa su un bastone e lo tiene alto sopra la sua testa a mo’ di totem. Commenti, frizzi e lazzi dei compagni e lui zitto. Con l’aria compresa ostenta sofferenza come il Cristo in croce, dichiara a più riprese di essere un profeta. Si arriva all’imbocco di un vallone, su un grande prato dove si trovano alcuni enormi massi erratici. Il ragazzo si arrampica su uno di essi e mentre gli altri, messi gli zaini a terra, riprendono fiato e si attaccano alle borracce, allarga le braccia reggendo il suo simbolo sacro e grida che il profeta è colui che ha delle cose da dire e gli altri devono ascoltare la sua parola. Silenzio. Sguardi interrogativi, qualcuno ironico. Si tratta di ragazzi di una prima, si conoscono da pochi giorni, uno che si comporta così lascia perplessi: è matto veramente o ci fa? Matto non è dice qualcuno, se no ci sarebbe l’insegnante di sostegno. Sì, bravo te! Ma non lo sai che per risparmiare quei bastardi tagliano anche gli insegnanti di sostegno? Di fronte al silenzio dei compagni, lui ripete con più foga e conclude: “Zotici bifolchi che non siete altro. Io sono il vostro profeta scomodato da dio apposta per voi e voi dovete ascoltarmi e seguirmi. Non ho tempo da perdere. Se non lo farete, avvicinandosi il giorno del giudizio saranno cazzi vostri. E non andate poi a dire che non vi avevo avvertito”. A questo punto parte da uno del gruppo la risposta: “Senti un po’, profeta dei miei coglioni, visto che non hai tempo da perdere, perché invece di star lì a fare il cretino non cominci con l’andare a cagare”.

Non sempre camminando parlavo. Mi ritagliavo molti spazi di libertà; per pensare, per guardare, per ascoltarli, per osservarli (per me cominciava così la loro conoscenza, non facendo in aula “test di ingresso”), per parlare con la mia collega (sempre mi accompagnava una delle mie colleghe, che doveva essere una con cui avevo molta sintonia, altrimenti non funzionava). Bei tempi e buona scuola, per me. Spero anche per loro.

 

 

 

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