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Categoria: Scuola e università
Creato Sabato, 01 Ottobre 2016

presideScuola: il preside manager, di Rino Ermini

Quali i reali obiettivi, già raggiunti, della promozione dei presidi a dirigenti?

Nella scuola si cominciò a parlare di “preside manager” già alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Di questa idea erano entusiasti tutti, nei sindacati confederali come nello Snals, il sindacato autonomo, ma soprattutto nell’Anp, l’associazione di categoria, quella che oggi si chiama Associazione Nazionale Dirigenti e Alte Professionalità della Scuola.

Erano rabbuiati soltanto quei presidi che, essendo sul punto di andare in pensione, avevano la certezza di non fare in tempo a godere dei benefici, degli onori e dei privilegi in arrivo. L’entusiasmo di chi stava a capo delle scuole era dovuto a tante cose, in primo luogo alla certezza che, cambiando di status e salendo di grado, sarebbero inevitabilmente arrivati significativi riconoscimenti economici e più potere. E non si sbagliavano.

Le voci critiche di allora puntavano il dito soprattutto sul fatto che se di un preside si vuol fare un manager è logica conseguenza che di ogni singola scuola si debba fare un’azienda privata. Naturalmente contro tali voci fioccavano le esclamazioni di sbigottimento e di sufficienza, in particolare si riteneva di doverle rintuzzare sostenendo che col preside manager finalmente sarebbero state riconosciute giuridicamente ed economicamente le “gravi responsabilità” che stavano sulle spalle di un capo di istituto. Qualcuno provava a controbattere che anche un docente che ogni mattina sale in cattedra di fronte a bambini e adolescenti ha un’enorme responsabilità. Si può dire che a tale questione ponesse elegantemente fine un funzionario dell’Aran che, nell’informale e cameratesco scambio di opinioni con rappresentanti sindacali durante una pausa caffè, ebbe a dire chiaro e semplice che un riconoscimento, magari anche sostanzioso, della responsabilità di alcune migliaia di presidi avrebbe avuto un costo nemmeno lontanamente paragonabile a quello, fosse stato pure molto più modesto, moltiplicato per centinaia di migliaia di docenti.

Le cose sono poi andate come sono andate. Le opposizioni sono state sconfitte, purtroppo non solo in questo frangente, e piano piano, contratto dopo contratto (finché i contratti si sono fatti) e poi per altre vie, i presidi sono diventati dirigenti e i loro stipendi sono cresciuti di conseguenza, a fronte di quelli delle altre categorie della scuola i cui stipendi invece sono fermi da anni. Particolare non marginale: se il carico di lavoro è relativamente aumentato per i dirigenti, per le altre categorie, in primo luogo i docenti, è senza ombra di dubbio diventato insostenibile.

Quali i reali obiettivi, già raggiunti, della promozione dei presidi a dirigenti? In primo luogo ristabilire il comando nella scuola; ossia, dopo la ventata di contestazione e di lotte degli anni Sessanta e Settanta, così come è avvenuto nei settori privati, ricostruire una gerarchia ed una autorità messe in discussione, chiamando in causa anche il presunto miglior funzionamento degli istituti là dove comando e autorità fossero saldamente ristabiliti. Inutile citare, a proposito di buon funzionamento del “privato”, le decine di migliaia di aziende che hanno fallito negli ultimi anni e che continuano a fallire. In questo quadro, dove ai presidi di un tempo e ora dirigenti forse è aumentata solo la quantità di firme da apporre, bisognava dare al preside il ruolo di colui che, nell’ambito delle ristrutturazioni in funzione di aziendalizzazione di ogni singola scuola, doveva garantire che tutto si svolgesse senza eccessive scosse, senza conflitti, insomma contribuire a far ingoiare le polpette avvelenate a una categoria in genere non molto combattiva, ma solitamente restia a farsi dare ordini e farsi manipolare.In secondo luogo, mentre si lavorava alla istituzione del preside dirigente, si procedeva anche all’accorpamento degli istituti. Ciò serviva unicamente a fare in modo che là dove prima c’erano tre o quattro presidi ora ci fosse un solo dirigente, così che con gli stipendi da preside risparmiati se ne poteva tranquillamente pagare uno da dirigente e avanzava pure qualche cosa. Del fatto che in questo modo si peggiorasse un servizio e si creasse disoccupazione non importava a nessuno: bastava dire che tutto veniva fatto per migliorare la scuola e far lavorare di più i suoi addetti, notoriamente fannulloni. La gente in genere se la beveva e dormiva tranquilla.

C’è infine una terza questione, forse la più importante: se un preside diventa dirigente, che dirigente è se poi non può assumere e licenziare direttamente il personale? Siamo arrivati a ciò, finalmente, con la “buona scuola”. La si giri come si vuole, a partire da quel documento e relative leggi e decreti attuativi, i dirigenti scolastici possono chiamare direttamente il personale con le caratteristiche ritenute adatte al piano di studi dell’istituto da essi diretto, e allontanare coloro che, a giudizio sempre del dirigente, tali caratteristiche non abbiano. Il fatto che per le assunzioni si debba attingere ad una specie di albo non garantisce proprio niente, in primo luogo perché la chiamata non è secondo una graduatoria ma appunto dipende dalle “caratteristiche” individuate dal dirigente. Si presume poi che dopo un determinato periodo di permanenza in tale albo, se nessuno ti chiama, si venga posti in mobilità.

Non avremo più alla fine meccanismi di assunzione che, sia pure non eccellenti, garantivano una certa equanimità, ma l’assunzione a chiamata, magari anche da una agenzia interinale, perché no? Per l’appunto come nel privato.

Sento già gridare lanciando accuse di “soliti esagerati” quelli che un tempo gridavano ai critici del preside manager. Qualcuno allora spieghi il significato di certi passaggi tipo questo: “Per vivere e crescere nell’autonomia responsabile, ogni scuola deve poter schierare la miglior squadra possibile. Per farlo i curricula dei docenti saranno resi fruibili in maniera trasparente, e le informazioni in essi contenute serviranno alle scuole per la selezione degli organici funzionali e per la mobilità di tutti i docenti” (pagina 63 della “Buona scuola”). Le parti in evidenza sono così nel testo, non sono nostre. Purtroppo per la scuola pubblica e per tutti noi, compresi gli entusiasti di simili provvedimenti, gridino pure quanto gli pare all’indirizzo dei “critici esagerati”, i fatti sono già un pezzo avanti su una certa strada. E l’ondata neoliberista partita dagli anni Ottanta non è ancora finita, c’è ancora molto da saccheggiare e distruggere in quanto a servizi pubblici. E direi che se non viene in mente ai lavoratori e alle lavoratrici, della scuola così come di altri settori, di provare a fermare certe delinquenziali politiche, non le fermeranno certo né quelli che ne sono gli autori né quei sindacati e partiti, di destra di centro o di sinistra che siano, che per un verso o per l’altro le sostengono.

Per non rimanere nel generico, direi che fra le tante cose possibili forse una delle più urgenti da fare nella scuola sarebbe provare a ridare fiato al sindacalismo di base, superandone contrasti interni, divisioni, personalismi, ecc. per costruire una piattaforma e uno strumento di lotta e di servizio ai lavoratori che siano più credibili ed efficaci. Mi parrebbe proprio questo del sindacato un punto cruciale, per tanti motivi, non ultimo il fatto che se “loro” hanno creato la figura del dirigente per rafforzare nel posto di lavoro il potere e il comando sia sul piano teorico che sul piano pratico, a noi compete la risposta dell’organizzazione diretta dal basso, per la difesa dei diritti rimasti, per la riconquista di quelli perduti, per la costruzione di una società totalmente diversa da quella in cui viviamo.

 

 

 

 

 

 

 

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