La Resistenza, di Rino Ermini (n°212)
Vorrei spendere due parole sull’insegnamento che in qualsivoglia ordine di scuola, fatte salve le modalità più adatte all’età degli studenti che abbiamo di fronte, si può e si dovrebbe fare della storia della Resistenza al fascismo.
Parlo di quella con la R maiuscola, perciò non solo della Resistenza dal 1943 al 1945, ma anche di quella, di pari dignità ed importanza, che si è sviluppata dal 1919 a 1943, e dopo, dal 1945 ad oggi: una storia complessa, disseminata di fatti importanti, fucina di idee e di valori che avrebbero dovuto diventare propri dell’intera società, sebbene così non sia avvenuto che in misura esigua.
Nell’affrontare questo argomento sarebbe necessario sia riferirci alla Resistenza presentataci spesso in modo agiografico e di maniera, a volte distorta o aggiustata a fini di propaganda di partito o di governo delle istituzioni, sia richiamare l’attenzione su quella concreta, reale, con pregi e difetti, luci ed ombre, esaltazioni e dimenticanze, che è stata (ed è e dovrebbe essere, perché staremmo parlando anche del presente e del futuro) un movimento, un sentire ed un agire contro il fascismo di ieri, di oggi e di domani. Inoltre, se dell’argomento volessimo parlare correttamente fino in fondo, si dovrebbero chiamare in causa e mettere in discussione quella società e quelle classi che sono state e sono alle origini del fascismo, e che se lo sono creato e allevato e se lo tengono in caldo per quando tornerà utile al mantenimento dello sfruttamento e dell’oppressione.
Allora, se nella scuola, di fronte alle nuove generazioni, si vuole parlare di Resistenza e fascismo, penso che si debba prima di tutto affrontare con chiarezza, passione e correttezza la storia in generale per creare un buon quadro di riferimento dove inserire la storia delle classi subalterne e della lotta di classe, così come la storia del capitalismo e del potere, per giungere alla fine alla trattazione del nostro argomento. Ho detto chiarezza, passione e correttezza semplicemente per fare intendere che sarebbero di nessuna utilità i discorsi generici, che bisogna essere di parte e schierati, che bisogna essere allo stesso tempo quanto più oggettivi possibile. Per specificare ulteriormente: a me parrebbe impossibile che potesse parlare di Resistenza un docente che non la conoscesse bene in tutti i suoi aspetti o uno che non fosse consapevole dell’importanza della storia o che fosse tendenzialmente di destra o non sentisse profondamente determinati valori. E non starei parlando di valori e concetti generici e logori quali democrazia o costituzione, generici e logori almeno per come li vediamo, li viviamo e ne sentiamo parlare nella fase storica attuale.
Un valido insegnamento sulla Resistenza dovrebbe significare anche porsi l’obiettivo di contribuire a formare individui e generazioni che abbiano come caratteristica principale la capacità di essere critici, pensanti, solidali, disposti alla partecipazione diretta; che abbiano cioè un’idea della vita che non sia fondata su concetti quali la gerarchia, il denaro, il profitto, la sopraffazione e il merito. Se non parleremo di questo e se non riusciremo a muoverci in questa direzione non servirà fare una lezioncina una volta all’anno, in occasione magari del 25 aprile, sulla Resistenza, sia quella ufficiale o sia pure quella meno ufficiale. Agire in questo modo, cioè con la lezione una tantum, non servirà a niente e i nostri studenti alla fine si saranno solo annoiati (magari come in qualsiasi altra lezione metodologicamente simile), non avranno appreso alcunché e si sarà trattato soltanto di un’occasione perduta. Perciò abbiamo sbagliato quando della Resistenza ce ne siamo occupati in modo celebrativo e convenzionale, da ricorrenza ufficiale benedetta da partiti, chiese e governanti, tollerata con malcelato fastidio o ignorata dai docenti fascisti o di destra o qualunquisti come si diceva una volta.
Abbiamo in genere sbagliato anche, almeno negli ultimi decenni, a portare nelle classi i Partigiani, pur con tutto il rispetto per loro, quando quegli incontri con gli studenti cadevano in una situazione arida, vuota, mal preparata. O quando si portavano le classi ad assistere a convegni celebrativi dove una sfilza di autorità, annoiando a morte, snocciolavano i loro discorsi retorici e privi di sostanza, quasi come si trattasse di una dovuta incombenza burocratica. Personalmente metto in discussione poco dei partigiani che ho incontrato in quelle occasioni. Mi sono semplicemente reso conto che non funzionava. Era un rito dove in generale, fatte salve le eccezioni, gli studenti frapponevano fra sé e quelle persone e quello che rappresentavano un muro, rimanendo al di qua, impedendo che scattasse un qualsiasi coinvolgimento.
Sarebbe decisamente meglio che i docenti che hanno sensibilità facessero da soli, con un discorso approfondito e articolato nel tempo. Devono essere loro a parlare di Resistenza, e parlarne in primo luogo attraverso l’impostazione di un insegnamento progressista nel vero senso della parola, facendo una scuola alla cui base vi siano la libertà e la cultura critica, narrando i fatti a fondo e allo stesso tempo in modo semplice, e persuasivo perché oggettivo; perciò, in sostanza, mettere in luce quali altri valori sarebbero possibili senza il fascismo e senza il potere, senza lo sfruttamento e senza l’oppressione. E pensare all’oggi e al domani, perché il fascismo non è morto e i suoi presupposti, il suo terreno vitale ci sono ancora tutti. Per parlare di Resistenza e fare Resistenza ci vuole una scuola diversa, e la convinzione che un mondo diverso è possibile, e liberarsi dalle istituzioni così come ora sono, e dalle pastoie del potere e dello stato, siano come siano.