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Categoria: Scuola e università
Creato Sabato, 01 Giugno 2019

the-severe-teacher ian steenAlcuni spunti per riflettere

Sulle malattie professionali dei docenti, di Rino Ermini (n°224)

Precisiamo innanzitutto che il riferimento ai soli docenti è voluto: soltanto di essi vogliamo infatti occuparci in questa sede. È evidente che, quando si parla di malattie professionali  e in genere di salute, sicurezza e prevenzione in un determinato posto di lavoro, tutte le tipologie di lavoratori ivi impiegate sono coinvolte; ma non sempre allo stesso modo e con la stessa intensità di “esposizione”. Nella scuola, ad esempio, il rischio di contrarre patologie da stress inerenti la relazione con gli studenti o con la burocrazia invasiva e inutile, non può che riguardare, almeno in larga misura, il corpo docente. Così come è proprio degli insegnanti il compito di lavorare didatticamente col fine di contribuire a formare nei giovani una certa coscienza riguardo a salute, sicurezza e prevenzione.

Fatta questa breve premessa, è necessario anche chiarire che, quando si cerca di affrontare il tema della salute nel settore dell’ istruzione pubblica, c’è sempre chi, credendosi molto scaltro, la butta sul ridere e rimesta nei soliti luoghi comuni triti e ritriti dello scarso impegno orario dei docenti, delle lunghe ferie e di altre amenità, concludendo che, per carità, non si facciano ridere i polli, perché con simili condizioni di lavoro, altro che malattie professionali, il benessere assoluto è più che  assicurato.

Tali affermazioni, per non dire tali perle di saggezza, muoverebbero subito a una serie di domande ed obiezioni. Una in particolare non può essere taciuta: se così fosse stato, che cioè i docenti abbiano goduto di tali e tanti privilegi, come mai, invece di arrabattarsi per levarglieli e ridurre la categoria a condizioni vicine o uguali (o peggiori) a quelle di altre, non si è cercato di fare il contrario, e cioè elevare il più possibile le altre alla migliore condizione dei docenti? In particolare, questa domanda mi verrebbe da porla non tanto a uomini e donne della destra che fanno il loro mestiere ed ai quali non ho proprio niente da dire o da chiedere, ma a quella gente e a quei partiti e sindacati “di sinistra” che nella società, nel Parlamento e nei Governi hanno lavorato per assecondare le destre, i padroni, i liberisti e i reazionari d’ogni risma nelle loro richieste di attacco e peggioramento alle condizioni di vita e di lavoro di molte categorie. In particolare mi verrebbe da chieder loro che ci spiegassero che cosa è cambiato per i metalmeccanici o i lavoratori del commercio quando a un professore di scuola media inferiore o superiore sono stati aumentati i carichi di lavoro, si sia trattato di quelli burocratici e inutili come di quelli per “risparmiare”, ad esempio l’assegnamento di un più alto numero di classi o un più alto numero di studenti per classe. Stanno meglio ora i metalmeccanici? E come hanno fatto i lavoratori, quando una categoria è stata sotto attacco, a bersi le falsità del potere e dei relativi accoliti, con  le  quali  il  potere ha rafforzato se stesso e i propri privilegi e quelli delle classi che lo sostengono, e danneggiato in prima istanza la categoria presa di mira, per poi, una alla volta, colpire anche tutte le altre?

Lasciamo da parte le risposte, che noi comunque già conosciamo, per entrare nel merito. Quando si parla di salute e malattie professionali nella scuola, e poi ancora di sicurezza e prevenzione, si dovrebbero intendere anche una didattica e dei contenuti atti a creare coscienza nelle nuove generazioni. Se no, chi la crea questa coscienza? Purtroppo c’è rimasta solo la scuola. Perché non ci sono più i grandi partiti o i sindacati (ammesso che adempissero a tale compito alla maniera giusta per i lavoratori e le classi subalterne), né le lotte di massa e le azioni concrete con le quali si creavano, e si dovrebbero creare, coscienza e consapevolezza. È inevitabile dunque che, mentre si parla del disagio dei docenti, li si richiami ad una delle tante cose che gli chiederemmo di fare, perché se non le fanno loro nessun altro le farà. Vorremmo dire insomma di come i docenti, dalle elementari alle superiori, sempre con linguaggi e metodologie adeguate all’età degli allievi, in particolare i docenti di educazione civica, storia, diritto, biologia, ecc., dovrebbero contribuire a far nascere “consapevolezza” e conoscenza sulla salute e la prevenzione, perciò sulla salubrità dei posti di lavoro e del lavoro: che sarebbero elementi non opinabili, ma obbligatori per semplice logica e per legge. Insomma, la trattazione sistematica dell’argomento salute, sicurezza e prevenzione dovrebbe entrare nella scuola addirittura come una materia di studio a sé stante o, in subordine, come argomento basilare da trattarsi nell’ambito, se non proprio di tutte le discipline, almeno di buona parte di esse; tenendo oltretutto sempre presente il fatto drammatico che chi esce dalla scuola dell’obbligo, o anche al termine delle superiori con un diploma o dall’università, e va a lavorare, quasi mai possiede un qualche barlume di conoscenza su certe questioni. È un bene questo? Di certo per il padrone, che ha bisogno di individui pronti a chinare la testa, ma non ad elevare proteste perché, ad esempio, in una fabbrica mancano i ventilatori, o perché liquidi tossici residuo di una data  lavorazione vengono scaricati in fogna invece di essere smaltiti secondo le norme.

Se entriamo invece nel merito delle condizioni di lavoro dei docenti e delle malattie professionali, qualche valido spunto di riflessione ce lo può dare la lettura del libro di Gianluca Schiavo che abbiamo analizzato nella rubrica “libri di scuola”, il quale fra le altre cose pone anche tale questione, cioè come sono state e come sono le condizioni di lavoro degli insegnanti e quali le conseguenze specifiche di questo mestiere sulla loro salute.

Nel suo libro c’è un richiamo preciso, non solo e non tanto alle condizioni delle maestre alla fine del secolo XIX e nella prima metà del XX, notoriamente e indiscutibilmente tragiche, quanto all’attualità e relativamente a tutti i docenti, dalle elementari alle superiori. Sulla base di inappellabili indagini epidemiologiche esse appaiono preoccupanti, proprio anche dal raffronto con la situazione di altre categorie, alla faccia dell’orario di lavoro “indecente” perché “corto” e delle vacanze altrettanto “indecentemente” lunghe. Vediamo la seguente citazione, relativa solo alla malattia psichica, ma che può valere in generale. «Negli ultimi anni … si sono succedute varie interessanti ricerche scientifiche aventi come oggetto la connessione tra professione di insegnante e disagio mentale. La prima pubblicazione sul tema, che ha suscitato vasta eco sulla stampa, risale al 2004, quando la prestigiosa rivista La medicina del lavoro ha ospitato un ampio articolo avente come primo firmatario Vittorio Lodolo d’Oria, medico del lavoro in servizio presso l’ASL Città di Milano. Nel saggio, alla luce di dati clinici molto accurati, si mette l’accento sulla grande e sorprendente frequenza con cui chi lavora nella scuola manifesta problemi di salute psichica... Lo studio prosegue comparando i dati raccolti in un vasto campione di insegnanti lombardi con quelli relativi ad altre professioni e osservando che quella dei docenti di scuola “è soggetta a una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori manuali. Lo studio evidenzia inoltre come gli insegnanti presentino il rischio di sviluppare una neoplasia superiore di 1,5-2 volte rispetto ad operatori manuali ed impiegati”» (pagine 146-147).

Ecco: non è una buona notizia e, almeno a noi pare, nemmeno da mettere in discussione. Tanto per cominciare, forse sarebbe urgente, invece di ridurre il personale e aumentare il carico di lavoro di chi resta, prendere provvedimenti di altra natura, ad esempio diminuire il numero di studenti per classe, provvedere a tutte le assunzioni necessarie e aumentare gli stipendi. E per quanto riguarda i “mali”, purtroppo non sarebbe finita con la citazione di Schiavo. Qualcuno ha mai provato a misurare le sofferenze dei docenti quando per le condizioni di affollamento delle aule è impossibile una didattica efficace e quotidianamente si devono fare i conti con l’insuccesso e la frustrazione? Qualcuno ha mai misurato quelle di studentesse e studenti e delle loro famiglie (perché ci sono anche loro) di fronte all’insuccesso scolastico? E, per favore, non si risponda, in questo specifico caso dell’insuccesso degli studenti, con il fin troppo facile richiamo al dovere di studiare di più. Sì, certo, esiste anche quel problema, ma è, appunto, un “altro” problema.

 

 

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