Nell’alternanza scuola lavoro si muore anche, di Rino Ermini (n°251)
Se non fosse così, che alternanza scuola lavoro sarebbe?
Quando l’alternanza fu istituita, un certo numero di insegnanti furono contrari. Troppo pochi tuttavia. La stragrande maggioranza, con alla testa i soliti primi della classe come i sindacati concertativi, o erano d’accordo, per convinzione o sottomissione alle esigenze padronali e del potere, o non gliene importava niente.
C’erano addirittura coloro che, dimostrando oltretutto di non aver capito bene di cosa si trattasse, dicevano che con essa si “alleggerivano” le classi; e col “duro lavoro” certi studenti fannulloni avrebbero imparato ad abbassare la cresta e magari finalmente si sarebbero messi anche a studiare. Fra gli studenti taluni si trastullavano nell’idea di una specie di vacanza, tipo viaggio d’istruzione; altri pensavano che la cosa non li riguardasse, altri ancora non sapevano in che cosa consistesse esattamente questa novità né gli importava di saperlo.
La minoranza che non era d’accordo sosteneva trattarsi dell’ennesima intrusione dei padroni, in un settore pubblico come quello della scuola e nel nome del liberismo, alla ricerca di manodopera gratuita, abbondante, mobile e duttile. Quelli che condividevano il punto di vista padronale, cioè i sindacati concertativi, nonché tutti i partiti dell’arco parlamentare, e quindi chi li votava, e anche in fondo chi non li votava, sapevano benissimo come stava la questione: invece di ridurre il numero di alunni per classe, assumere tutto il personale necessario a partire dai precari, aumentare gli stipendi e garantire i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dare una seria virata alla didattica impostandola non al servizio dei padroni ma al servizio della crescita umana e culturale degli studenti, ci si inventava un provvedimento che, come abbiamo accennato sopra, serviva solo a mettere a disposizione manodopera a costo zero, e soprattutto a far intendere agli studenti che la scuola non deve essere il luogo dove si acquisiscono strumenti per la propria crescita umana e culturale, come individui liberi e cittadini consapevoli, ma un luogo fatto per ficcarci in testa che possiamo al massimo essere dei produttori al servizio del capitale, e consumatori, se il capitale ne ha bisogno, altrimenti non si è niente, si è soltanto zavorra. E per raggiungere un tale scopo è inutile aspettare: si comincia da subito. Non bastava più l’aver gradatamente azzerato negli ultimi decenni quel che le lotte operaie e studentesche degli anni ’60 e ’70 del Novecento avevano fruttato in merito a un certo cambiamento della scuola, si potrebbe dire quasi “rivoluzionario”, ma si passava direttamente all’addestramento al lavoro e alla sottomissione senza se e senza ma.
Rispetto al giovane diciottenne morto in Friuli (purtroppo ve ne sarebbe anche un altro, di sedici anni, morto nelle Marche a seguito di incidente stradale mentre era in giro col furgone della ditta nella quale stava facendo uno stage) ci sono state manifestazioni di protesta, intrecciate mi pare anche alla questione della seconda prova scritta all’esame di maturità. Manifestazioni che però, a quel che si legge, non hanno avuto una grossa consistenza. Brutto segno: ciò vuol dire che si percepisce l’accaduto, cioè quelle morti, come una normalità. E questa percezione viene sicuramente dal fatto che la cronaca ci ha così abituati alla sistematica quotidiana strage di lavoratori che un incidente mortale in più o in meno non desta alcuna reazione; siamo assuefatti, e morire ogni giorno sul lavoro è normalità. È bene tuttavia rimarcare che il potere (e cioè i padroni e il governo) non dormono e non perdonano: le manifestazioni, piccole o meno piccole poco importa, sono state pesantemente represse dalle forze dell’ordine a suon di cariche e manganelli; e su tutto il territorio nazionale, il che chiarisce che non si tratta di un’iniziativa partita per eccesso di zelo da una qualsiasi autorità locale, ma dal ministro degli interni, quindi dal governo. Sarebbe appena il caso di dire che costoro, insieme con i padroni, fanno il loro mestiere; e sarebbe ridicolo pensare che si debbano comportare, o possano comportarsi diversamente, se non costretti. Ci sarebbe semmai qualcosa da dire su quelle forze che, proclamandosi paladine dei lavoratori, da decenni non svolgono altro ruolo se non quello di copertura e appoggio al neoliberismo, piegandosi a tutti i provvedimenti che vengono presi in favore dei privilegiati e quindi a danno delle classi subalterne. Tuttavia questa è storia vecchia e niente più su di essa rimane da dire.
Sarebbe anche storia vecchia che nei problemi in un settore lavorativo, sia esso una fabbrica o sia la scuola, solo la mobilitazione in prima persona cosciente e consistente può avere ragione della ferocia del mercato e della produzione capitalistica. Ed è da qui, dall’organizzazione e dalle lotte dei lavoratori, e nella scuola anche delle studentesse e degli studenti, che potrà venire la scomparsa delle morti sul lavoro. Per la scuola, oltre che da molti obiettivi irrinunciabili che nei numeri passati di questa rivista più volte abbiamo elencato, il non ripetersi dei tragici fatti di cui sopra deve passare dall’immediata abolizione dell’alternanza scuola lavoro.
Da ex insegnante impenitente non riesco a trattenermi dal dire alle studentesse e agli studenti (si capisce, con affetto e rispetto): lasciate perdere la seconda prova scritta. Lasciate che se ne occupi il signor ministro. Non vi abbassate. Avete cose di ben altro spessore di cui occuparvi e sulle quali far valere le vostre ragioni e il vostro valore.