Lager, recensione di Eugen Galasso (n°224)
Cooperativa Teatrale “Prometeo”
di e con Dario Spadon e Sabrina Fraternali
regia: Dario Spadon
luci e fonica: Daniele Frison
Il lager (che è pienamente tale, non “durchgangs und polizeilager” - ossia di transito e di controllo da parte della polizia - come si recitava ufficialmente), sito a Bolzano in via Resia, chiuso significativamente soltanto il 4 maggio 1945 e poi “fatto sparire” quasi certamente per coprire responsabilità e connivenze italiane e tirolesi (la zona è mistilingue), diviene protagonista di questo spettacolo, che comprende letture dal palcoscenico da parte dei due ottimi interpreti, musiche, materiali video, testi classici (Qohelet ma anche una poesia in yiddish e alcuni bellissimi componimenti di Egidio Meneghetti narranti la vicenda del lager in dialetto padovano).
Oltre ad essere stato un luogo nel quale, tra gli altri, passò anche un “vip” come Mike Bongiorno, che a suo tempo fu ripescato, cioè intervistato da tutti i giornali e le televisioni possibili a proposito del tema, il lager è legato a due figure terribili, giustamente evocate da Spadon e Fraternali nella loro narrazione: i due aguzzini ucraini Otto Stein e Mischa Seifert; ma anche ad alcune figure nobilissime, come i partigiani Tullio Degasperi, operaio comunista di Ala (Trentino del Sud), morto poi a Mauthausen e Manlio Longon, padovano, dirigente della Magnesio di Bolzano e del Comitato di Liberazione Nazionale, morto nel locale lager sotto i colpi, inferti a mani nude, dagli assassini Stein e Seifert.
Attraverso la narrazione forte quanto appassionata dei due interpreti/autori (la ricerca storica, che si riferisce a documenti recuperati anche nella massicciata dei treni con destinazione Mauthausen, Dachau, Flossenbürg, Ravensbrück, è stata condotta da Andrea Felis), rivive un capitolo terribile quanto straordinario della storia d’Italia (nel nostro paese c’erano altri tre lager: la Risiera di San Sabba a Trieste, Fossoli presso Carpi e Borgo San Dalmazzo presso Cuneo).
È uno dei rari casi in cui la suggestione della parola attorale riesce a ridarci il senso di “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Eugenio Montale, “Non chiederci la parola” in “Ossia di seppia”).
Teatro di parola e di narrazione, come si è detto, dove però la parola si fonde e si lega a tutti gli altri “media” citati in un consensus estremamente efficace, nuovo quanto di rara potenza. Dalla enumerazione alla narrazione propriamente detta, tutto si svolge in maniera catartica, ieratica, ma in un clima assolutamente e profondamente laico, sempre che il lemma abbia ancora un certo valore.