I giganti della montagna, recensione di Irene Carrubba e Eugen Galasso (n°227)
di Luigi Pirandello
Regia: Gabriele Lavia
Come noto, “I giganti della montagna” è il testo teatrale incompiuto di Pirandello, il cui terzo atto non venne completato dall’autore in quanto sopraffatto dalla morte nel dicembre del 1936. La regia e la messa in scena sono di Gabriele Lavia che, anche nei panni di Cotrone, accentua intelligentemente la dimensione dell’“oltre” (non maiuscolo, in quanto rimane vivo il ricordo di Pirandello che, alla domanda d’immatricolazione all’università di Bonn sulla religione professata, rispose decisamente “Ateo!”, sottolineando poi il bigottismo protestante della popolazione della città germanica.
L’ “oltre” si riferisce dunque all’incomprensibile, a quanto va oltre la capacità razionale (o “intellettiva” come direbbe Kant, se vogliamo...) a quanto evidentemente, anche rielaborando i dati dei nostri sensi, sfugge alla comprensione.
Questa dimensione è presentissima, nella messa in scena di Lavia, che trasforma il castello diroccato in un teatro diroccato, anzi proprio distrutto, dove la metafora è evidente, pur nella ferma convinzione che il teatro, quasi “araba fenice” possa comunque sempre rinascere dalle proprie ceneri...
Il confronto, che alla fine porta a un chiarimento e a una sostanziale alleanza tra i “riceventi” (gli Scalognati) e i “ricevuti” (La “Compagnia della Contessa”) e a loro modo anche i Fantocci, che non hanno neppure bisogno di venire evocati per apparire, non si conclude in quanto sopraggiungono i “giganti della montagna”, che, come chiarissimo anche proprio nel testo, sono i corifei del “macchinismo”, del progresso tecnologico, facendo dire ai personaggi proprio alla fine del secondo atto (il terzo, come si è detto, non fu mai scritto): “Pare la cavalcata d’un’orda di selvaggi!” e “Io ho paura! Ho paura!”, nello stile dialogico assolutamente essenziale del Pirandello autore teatrale.
La messa in scena è estremamente dinamica, soprattutto quando lo scatenamento del ballo dei Fantocci porta quasi a un “dérèglement de tous les sens” (scatenamento di tutti i sensi); ma poi Cotrone, il “capo” del Nulla-Tutto, a suo modo cerca di spiegare, come fanno, anche sbraitando, tutti i personaggi...
Nell’opera di Pirandello riletta da Lavia regna il fantasmatico, regna se pur temperato, ma senza mai raggiungere l’armonia apollinea, appunto, il “divertimento” di chi sta a cavalcioni sul burrone in una dimensione di “estasi isterica” che poi addiviene ad altro, al lògos, appunto, al ragionamento che però non si afferma mai come tale.
Una lettura memorabile, del testo pirandelliano, dopo che anche Strehler, con tre tentativi in anni tra loro lontani (1947, 1966, 1994), aveva sostanzialmente “gettato la spugna”. Un grande lavoro di tutti, accolto degnamente dai prolungati applausi del pubblico, sia durante l’intervallo tra primo e secondo atto, sia soprattutto a fine recita.