La mafia, recensione di Irene Carrubba e Eugen Galasso (n°244)
di Luigi Sturzo
Giovani della Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico” e Fondazione Teatro della Toscana
regia: Piero Maccarinelli
Partendo da una riduzione del testo di Don Luigi Sturzo (1871-1959), fondatore del Partito Popolare Italiano da cui nascerà la Democrazia Cristiana, che prevedeva cinque atti, “La mafia” parte da un caso reale, ossia l’omicidio avvenuto nel 1893 di Emanuele Notarbartolo, direttore di banca, già sindaco di Palermo. Di questo si scoprì quale mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, per cui tutto il processo subì intralci e ostacoli per finire con la condanna di Palizzolo, legato alla mafia, in primo grado, e poi la sua assoluzione in appello.
Come ha affermato lo stesso Maccarinelli, il linguaggio del dramma sturziano è “secco, diretto, non conosce mediazioni: è profetico o meglio è una analisi lucida e sempre attuale dei metodi del sistema mafioso”, dove sappiamo come quest’ultimo sia basato sul negare pervicacemente non solo di conoscere lo svolgimento dei fatti, ma anche solo di esserne a conoscenza.
Se poi il “grande intellettuale cattolico” (senz’altro lo era, anche se non a livello di pensatori francesi come Jacques Maritain o Emmanuel Mounier o di un religioso scomodo come Ernesto Buonaiuti, sospeso “a divinis” e scomunicato nel 1926) sia stato “capace di superare le visioni insidiosamente di parte” rispetto alla mafia è forse più da discutere, dato che non ne denuncia la funzione politica, sempre a difesa dei potenti.
Decisamente giova alla “Mafia” - ovviamente intesa come testo teatrale - la riduzione operata da Maccarinelli rispetto all’originale e lo spettacolo, che in qualche modo è anche un saggio per gli allievi della “Silvio d’Amico”, si presenta come efficace nel riproporre un teatro civile. Entrare in specifico nelle singole interpretazioni parrebbe fuori luogo, anche perché la rappresentazione nasce precisamente come operazione corale.