Nel tempo che ci resta.
Elegia per Falcone e Borsellino, recensione di Eugen Galasso (n°263)
produzione: Campo Teatrale - Teatro dell’Elfo
testo e regia di César Brie
interpreti: César Brie (Tommaso Buscetta), Marco Colombo Bolla
(Paolo Borsellino), Elena D’Agnolo (Agnese Piraino Leto), Rossella Guidotti (Francesca Morvillo), Donato Nubile (Giovanni Falcone)
Dopo un “fuori scena”, che incita ironicamente a spegnere i cellulari, precisando che non si tratta di una “raccomandazione”, cosa detta con accento palesemente siculo, la scena ci mostra Villagrazia, il luogo da cui partì Borsellino per andare incontro alla morte. Qui un uomo (il pentito Buscetta - César Brie) lancia delle arance, da cui, tra le lamiere, escono quattro personaggi che dapprima non sanno dove siano, mentre poi riconoscono il “non luogo” della morte e iniziano a narrare. Ai quattro si aggiunge Buscetta che aiuta a raccontare e a ricostruire le vicende, partendo dalla preistoria della mafia, che si può far risalire all’Ottocento e culminare con l’attentato al grande tenore napoletano Enrico Caruso, che nel 1903 interpretava il verdiano “Rigoletto”, attentato sventato ad opera del famoso poliziotto Petrosino.
Gli interpreti, servendosi di praticabili e di insegne (anche di biancheria insanguinata, che simboleggia i morti per mafia), si alternano in vari ruoli, che però, nell’attenta ricostruzione storica di cui si è detto, riconducono sempre alla storia principale, quella dell’assassinio di Falcone, della compagna e dei tre uomini della scorta, e poi, a distanza di due mesi (tra il maggio e il luglio del 1992), a quello di Borsellino, oltre che della relativa scorta.
Frutto di più di due anni di ricerche di materiale librario, giornalistico e filmato, questa tragedia (il termine non è esagerato, dato che rende veramente il carattere dell’opera) è un capolavoro di César Brie.
Il regista, argentino di nascita, che aveva partecipato alla “Comuna Baires”, dove impegno politico e teatro erano talmente fusi da essere inseparabili, poi allo Odin Teatret, con la figura chiave di Eugenio Barba e ispirato da Jerzy Grotowsky, è infatti ormai saldamente radicato in Italia, di cui conosce benissimo la storia e la cultura.
Arricchito dalle sue precedenti esperienze, ripropone la tragedia nella sua sacralità (detta da un ateo, beninteso, come Brie), quella sacralità civile e dunque anche politica che rese grande il teatro greco antico, con Euripide ormai totalmente incredulo rispetto agli dei, ma testimone feroce dei grandi temi etici della vita e della società.
La pièce di Brie evidenzia appunto le gravi responsabilità del potere politico dell’epoca, accusando Andreotti, Craxi e i rispettivi partiti (DC e PSI) allora al potere, ma anche l’opposizione del tempo, intrallazzata con la mafia. Elementi che, ancora una volta, si evincono dalle cospicue fonti relative alla questione. Senza esitazione, considerata la straordinaria bravura degli interpreti e la qualità dell’opera, nella quale il testo diviene immediatamente teatro, si può tranquillamente affermare che si tratta di un evento teatrale tra i più importanti degli ultimi venticinque anni.