Letture
Il furto di un castoro, di Rino Ermini (n°274)
Ve la ricordate la storia di “Peter Russell, la bibliotecaria e Bakunin fuori posto”? (Pubblicata sul numero di marzo).
Ecco l’incipit di una poesia di Russell che si intitola “La Turbina”. La Turbina era l’antico “mulino” lungo il torrente Resco Simontano, per lungo tempo utilizzato da una grossa fattoria per produrre energia elettrica. Lo ricordate? E dove per un certo periodo provarono anche ad allevare i castori, non so se per semplice spirito creativo o per fare commercio di pellicce.
Peter Russel, la bibliotecaria e Mikhail Bakunin fuori posto, di Rino Ermini (n° 271)
Invece di andare in giro col computer per scrivere in mezzo a boschi, piagge e faggete, oggi sono venuto in biblioteca. Per forza, dirà qualcuno, piove a dirotto, come si fa ad andare a scrivere col computer sulle ginocchia in un bosco, al freddo e sotto il gocciolio della pioggia?
Come si fa? Si fa che basta essere un po’ matti, un po’ poeti mancati, accontentarsi del sole se c’è il sole, voler bene alla pioggia quando piove... e soprattutto avere in odio il capitalismo.
Scusami eh? Ma che c’entra il capitalismo?
C’entra eccome!
Comunque sia, oggi sono venuto alla Casa della Cultura del mio paese, dove sta anche la Biblioteca pubblica intitolata a Ilaria Alpi.
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La storia di Fofino conte degli Alamanni (o di Bettino, barone dei Ricasoli?), di Rino Ermini (n°260)
Questa storia la sentivo raccontare da ragazzo. La trascrissi che ero sui quattordici anni. Poi, a vent’anni, siccome mi venne lo sghiribizzo dall’oggi al domani di dare una svolta alla mia vita, decisi di bruciare tutto quello che avevo scritto fino ad allora. Feci un falò nel campo, ma bruciarono le carte e io rimasi com’ero, magari più bischero di prima, come disse la ragazza con cui stavo a quei tempi e che era presente al falò.
Andrea Babini: Tra anarchia e cristianesimo (n°255)
La rivista D.M.C.D./CR.AN. e il movimento cristiano-anarchico
Editore: La Mongolfiera
«Fra le tante domande che il variegato mondo dell’anarchismo si è posto (ma che probabilmente ha smesso di porsi da tempo) c’è anche quella relativa alla coesistenza con il cristianesimo. Che in sé è una domanda piuttosto semplice e scontata, visto l’ambiente culturale in cui gli anarchici si sono trovati a operare da un paio di secoli a questa parte, mentre la risposta invece non lo è affatto. Perché se è vero che il 99% degli anarchici hanno escluso tale relazione, sia in termini di principio che a livello “operativo”, il rimanente 1% ha affrontato, e affronta, la questione in maniera più articolata. E il motivo principale – lo dico anche per esperienza personale, diretta e indiretta – è perché la fede cristiana (declinata perlopiù sottoforma di confessione cattolica) fa o ha fatto parte della propria esperienza di vita, e ad essa si è o si è stati convintamente legati; di conseguenza, anche il “credo” politico non può rimanerne indifferente.
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Casa Tomaggia, di Rino Ermini (n°253)
Casa Tomaggia esiste ancora oggi. Ci si arriva con una strada bianca, aperta ai primi del XX secolo, che risale la valle affiancando il torrente che la discende; da questa strada, a un certo punto, si imbocca a sinistra una carrareccia, un tempo lastricata e ormai ridotta a sentiero, che si inerpica sui pendii boscosi del Poggio di Corte Castiglioni. Casa Tomaggia esiste, ma è soltanto ruderi; e i campi intorno solo occhi esperti possono indovinarli nei resti di muri a secco delle terrazze, fra quercioli, ginestre, scope, prugnoli e macchie di pruni. Il sentiero prosegue dopo i ruderi, aggira una forra percorsa da un rivolo d’acqua limpida, esce dai boschi per entrare negli oliveti di Case Figlinelli e ridiscende verso Pian di Tegna
Brunero Ciantini, di Rino Ermini (n°252)
ovvero: “Le trasformazioni di un razzista”
Questa storia, un po’ personale e molto semplice, riguarda Brunero Ciantini, un uomo d’una quarantina d’anni nato a Firenze; più precisamente riguarderebbe certe idee senza senso sulla nascita e il luogo d’origine che malauguratamente si trovano un po’ dovunque e sempre più spesso, non solo a Firenze. A vent’anni, quindi non molto tempo fa, Brunero faceva parte di un gruppo di suoi coetanei come ce ne sono tanti, e non perdeva occasione di far notare che lui era “cittadino” e “fiorentino puro”.
Il podista e i costruttori di capanne, di Rino Ermini (n°250)
Molte saranno le storie già scritte e ambientate all’epoca del covid, ma confesso di non essere interessato, e credo che non andrò a cercarle né a leggerne alcuna. Ne ho abbastanza del covid e di quel che c’è girato e ci gira intorno, e di tutte le storie di sofferenza che si sono aggiunte a quelle d’ordinaria amministrazione. Non dico delle storie di gente sempre sulle prime pagine dei giornali, ma delle storie della gente normale, quelle di cui nessuno si occupa. Tuttavia di storie, a mia volta, non posso non raccontarne almeno una che, fra l’altro, non sarebbe nemmeno una storia, ma un fatterello da prendere per quel che è.
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Il secolo lungo (n°249)
di Eric Hobsbawn Junior
anno di pubblicazione: 2222
Capitolo 2:
La lunga pandemia1
Come abbiamo visto nel primo capitolo, dopo il crollo del socialismo sovietico, il capitalismo - liberato da scomode concorrenze - si sbarazzò del suo “volto umano” costituito dalle politiche socialdemocratiche e keineisiane per tornare a ignorare bellamente i problemi sociali. Il trionfo del pensiero neoliberista fu tale da assumere la dimensione di pensiero unico, a cui aderirono sostanzialmente quasi tutte le correnti politiche.
Un paese vero, Rino Ermini (n°234)
Questo non è un racconto, ma la descrizione di un paese. E che differenza fa? Non lo so. Dicevo per i critici letterari, quelli che ti spiegano che cosa sono o che cosa non sono un romanzo, un racconto, un racconto lungo, un romanzo breve, o che so io. Insomma, mettevo le mani avanti. Si tratta di un paese brutto, e anche un po’ sporco, che sta nel profondo sud, come tutti i paesi brutti e sporchi.... scusate avevo la carta geografica capovolta, ho sbagliato ad orientarla. È un paese che sta al nord, ma così a nord che di più non si può.
I partigiani e la fattoria, di Rino Ermini (n°232)
La fattoria del Ragneto era circondata da un grande recinto in blocchi squadrati di pietra serena alto tre metri sulla cui sommità erano murati cocci di bottiglia. Questa la prima caratteristica che si percepiva arrivandoci. C’erano due ingressi: uno per transitare a piedi e un passo carraio che stavano ambedue sul lato lungo la via comunale; un altro passaggio, per carri e persone, era dalla parte opposta ed immetteva nei campi. Dentro il recinto ci stavano la casa padronale e un parco signorile: sempre chiusi e in ordine in attesa del padrone, che viveva in città e lì ci passava sì e no una settimana due volte all’anno.
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Una frasca di fico, Rino Ermini (n°225)
Stavo percorrendo in macchina una strada già fatta centinaia di volte nel corso della mia vita, tutta curve e contro curve, fra boschi, vigne ed uliveti. Stava facendosi buio. Quasi deserta. Non che normalmente ci fosse chissà quale transito, ma a quell’ora, l’ora di cena o giù di lì, in giro non c’era nessuno.
Scalpello e mazzuolo, di Rino Ermini (n°221)
Galligiano è una frazione di una ventina di case allineate ai lati di una strada in salita e lastricata, metà da una parte e metà dall’altra. Finiscono le case dove la strada diventa viottolo montano.
A Galligiano molti di cognome erano Venturi, del resto come in altre frazioni vicine quali La Lama, Caspri, Ciaspri e Mocale; genti giunte secoli addietro da chi sa dove e che, dopo aver varcato i monti, erano scese seguendo proprio quel viottolo che ora, entrando fra le case, si trasformava in strada. Giunsero con asini e muli, qualche pecora e qualche capra, magre vacche da lavoro e attrezzi. Fra gli attrezzi a nessuno mancavano scalpello e mazzuolo. Genti di mestiere contadini e pecorai, ma che sembravano portati più a cavar sasso e lavorarlo. Qui si fermarono perché il pendio bene esposto e meno erto lasciava intendere la possibilità di erigere magri campi a terrazza, e capanne da trasformare a suo tempo in case di pietra. Era anche una terra dove facilmente affiorava il macigno, buono a farci qualche cava. Più in giù, verso la valle, su terreni migliori, non vollero né potevano andare: c’erano altri coi quali volevano convivere, non urtarsi. Dove si fermarono, c’erano anche due torrenti. Voltando le spalle ai monti e guardando la piana, uno era a mancina, con meno acqua, ma buona da bere, e uno era a man ritta, più impetuoso, buono per il mulino e per lavarci le pecore a primavera, prima della tosatura.
La vendemmia com’era un tempo, di Rino Ermini (n°216)
Nel nostro podere, meno d’una decina di ettari fra campi e boschi, la vendemmia durava un paio di giornate. Faticose per gli adulti. Per i ragazzi erano giornate struggenti, complice forse l’aria di quella stagione (“Non so se tutti hanno capito ottobre/ la tua grande bellezza/ nei tini grassi come pance piene/ prepari mosto e ebbrezza/ prepari mosto e ebbrezza”).
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Sanremo, di Rino Ermini (n°213)
Quando mi affiora alla mente la parola Sanremo la associo a tre nomi e al parto di una vacca. I nomi sono Calvino, Libereso Guglielmi e Tenco. Il parto di una vacca ora ve lo racconto. Avrò avuto sette od otto anni ed erano un po’ di giorni che in casa si parlava di andare a vedere Sanremo. Questo nome allora non mi diceva niente. Qualche anno dopo, per me che amavo la geografia, sarebbe stato un paese sul mare dove si coltivavano i fiori. Per mia madre e una sua amica contadina che abitava in un podere a un chilometro dal nostro, doveva essere qualche altra cosa. Parlavano di canzoni, cantanti. Un giorno le chiacchiere furono ancora più fitte e sentii dire che la sera mia madre e la sua amica, si chiamava Eva, sarebbero andate al circolo dell’ACLI per vedere questo Sanremo alla televisione. Così, verso le otto, passò Eva e insieme, a piedi, si incamminarono chiacchierando.